Che il Pd non sia in forma smagliante è abbastanza evidente, tallonato nei sondaggi da FdI di Giorgia Meloni in forte ascesa a destra e alle prese con una maggioranza in permanente stato di agitazione con intese talvolta faticose da raggiungere, tanto da arrivare ad ipotizzare un rimpasto di governo “per rafforzare il profilo politico” dell’esecutivo (leggi ridimensionare Giuseppe Conte) in piena estate. E soprattutto con ben altre priorità nel Paese. Ma dalle parti del Nazareno si rendono perfettamente conto che fra un mese e mezzo il doppio appuntamento elezioni regionali -referendum sul taglio dei parlamentari potrebbe seriamente dare uno scossone non indifferente. Ovviamente sia dentro che fuori il perimetro giallorosso.
Che le Regionali siano da qualche anno, anche senza voler tirare in ballo quelle del 2000 che portarono alla caduta del governo D’Alema (o quelle in Sardegna del 15 febbraio 2009 che convinsero Veltroni, fondatore del Pd, a lasciare la segreteria, e si trattava del voto in una sola regione…), una sorta test per il governo in carica è altrettanto cristallino. Sono un po’ le nostre midterm elections e, come quelle americane di metà mandato, hanno il significato politico di “testare” il gradimento della politica nazionale attuata fino a quel momento. In questo caso però, più che una misurazione del consenso sul Conte bis si tratta di misurare le forze all’interno di una coalizione (di centrodestra, sebbene questa evenienza sia negata dai diretti interessati seppur senza troppa convinzione) o di uno stesso partito (il Pd, appunto…).
Mette le mani avanti Stefano Bonaccini (nella foto), governatore dell’Emilia Romagna al secondo mandato, uomo forte fra i dem in questo momento, stimato ben oltre i “suoi” confini territoriali, l’uomo che per usare le sue stesse parole “ha sconfitto i populisti alle elezioni”: in un’intervista al Corriere ieri ha precisato che un’elezione regionale non può essere “svilita a banco di prova interno per un singolo partito”. Ma non si tratta di svilire, si tratta di essere realisti. Il Pd zingarettiano potrebbe finire schiacciato nella morsa referendum-regionali: al momento, infatti, i sondaggi attestano che il partito rischia seriamente di perdere la Puglia (Iv ci ha messo del suo per favorire l’impresa ma il meloniano Fitto è comunque dato in vantaggio da prima che scendesse in campo anche il renziano Scalfarotto) e le Marche mentre nella rossa Toscana la leghista Ceccardi potrebbe recuperare lo svantaggio che le rilevazioni demoscopiche non danno così sproporzionato rispetto al candidato della coalizione di centrosinistra.
E in ogni caso anche la riforma tagliaparlamentari porta grane ai dem: il Pd, infatti, l’ha votata solo in quarta lettura (dopo tre no) e solo come tributo ai 5stelle per la nascita del Conte bis, in cambio però di una riforma elettorale in senso proporzionale che mitigasse gli effetti della riforma. che non si è vista. Come sottolineato peraltro, dallo stesso Bonaccini, che però rispetto ai mille distinguo del suo partito sull’opportunità di ridurre i parlamentari è molto netto e spiega che, che sebbene avesse preferito anch’egli accompagnare la riforma al bicameralismo differenziato e ad un sitema elettoale più consono, è assolutamente “favorevole ad avere un Parlamento meno pletorico e più in linea con le altre democrazie europee”. Con buona pace di Bettini che proprio per la democrazia paventa “pericoli” in caso di tagli delle poltrone.