Si dice “molto perplesso” Silvio Berlusconi sul referendum confermativo per il taglio dei parlamentari, “è una scelta che noi avevamo già adottato fin dal 2005 con la nostra riforma costituzionale, che poi però è stata cancellata dalla sinistra. In questo caso però è un taglio, come dire, russo. Che non si inquadra in una riforma complessiva del funzionamento delle istituzioni e che avrà come probabile effetto una riduzione degli spazi di democrazia con delle regioni che non potranno essere rappresentate in Parlamento da parlamentari dei partiti della minoranza. Anche per questo io sto ancora riflettendo sul mio voto. Fermo restando naturalmente l’assoluta libertà di voto per i nostri militanti e per i nostri eletti”.
Così argomenta il leader di FI una scelta che si ispira alla “politica dei due forni” di andreottiana memoria, tattica ormai entrata nel lessico e di fatto nell’agire politico, “libertà di scelta” per non prendere una posizione netta, quell’ammiccamento un po’ di qua un po’ là, né sì né, un eterno chissà; esattamente – appunto – come faceva la Dc con socialisti e missini quando si trattava di tenere in piedi un esecutivo. Cambiano le stagioni politiche e gli attori in campo ma il meccanismo è il medesimo. Fatto sta che anche in questo caso il centrodestra si presenta diviso alla meta nonostante tutti i tre partiti che lo compongono abbiano votato a favore in Parlamento. Se infatti cristallina è la posizione di Giorgia Meloni che, sulla scia del M5S, si è sempre distinta come paladina del fronte del Sì per il taglio dei parlamentari, certo non si può dire altrettanto degli altri.
In caso di un voto favorevole dei cittadini – abbastanza scontato – questa inedita alleanza d’intenti sarebbe quindi quella legittimata a festeggiare il risultato. I grillini in primis ma anche la deputata romana, che è riuscita a tenere compatto il suo partito, facendo in modo che FdI tenesse una posizione coerente durante tutto l’iter: dopo aver espresso il proprio assenso in Parlamento nelle quattro letture previste, nessun esponente del partito ha firmato per richiedere il voto popolare confermativo o ha espresso alcun tipo di dissenso. In caso di vittoria del Sì, la sera del 21 settembre Meloni potrà vantarsi di essere stata tenace nell’aver perseguito l’obiettivo, portato avanti come un mantra dai pentastellati, in ottica di risparmio di costi ma soprattutto di ottimizzazione del sistema, in linea con gli altri paesi Ue e lungi da essere, come sostiene Berlusconi “un atto di demagogia”. Peraltro in contraddizione con la capogruppo azzurra a Montecitorio Mariastella Gelmini che si è espressa per il Sì.
Ma il vero giano bifronte della coalizione non è tanto il leader forzista – il suo partito ha un’ispirazione liberale – quanto il segretario della Lega Matteo Salvini, che al contrario guida un partito ad impronta fortemente personalistica e plasmata sulla volontà del capo. Sebbene la posizione ufficiale del “Capitano” sia quella di votare (e far votare a militanti e simpatizzanti leghisti) Sì, avendo votato la legge già durante il governo gialloverde, il leader della Lega ha assunto un atteggiamento molto timido sulla questione. Nessun banchetto, sit in o battage sui social, tutte modalità molto in voga dalle parti di via Bellerio quando occorre intestarsi una battaglia o semplicemente promuovere un’iniziativa e addirittura un esponente di spicco come il deputato e responsabile economico del partito Claudio Borghi, che dichiara che: “Riducendo il numero dei parlamentari si danneggia la rappresentanza dei cittadini e si favoriscono i poteri forti. Sarebbe il sogno della tecnocrazia”. Insomma, Salvini lancia il sasso e nasconde la mano e lascia a Borghi il compito di fare il bastian contrario su un tema che, se vedesse sconfitti gli ex alleati pentastellati in una delle loro battaglie storiche, certo non gli arrecherebbe un dispiacere.