di Francesco Nardi
Lo hanno chiamato il Papa della tenerezza, per via del frequente riferimento che Bergoglio fa a questo termine cui assegna un enorme potere di sintesi del suo ministero.
Ma Papa Francesco si sta rivelando qualcosa di molto diverso dal semplice pastore che si è presentato alla folla dalla Loggia centrale di San Pietro poco più di un mese fa.
Chi ha commentato i tratti della sua rivoluzione nella Curia come semplici simboli oggi è infatti obbligato a romodulare il suo giudizio. La scelta di non occupare gli appartamenti pontifici o quella di vestire abiti per quanto possibile “più poveri” è quindi solo il contesto di ben altra interpretazione del vicariato di Cristo, e in questi ultimi giorni questo inedito e rivoluzionario approccio sta venendo fuori, porto sul vassoio di quella “tenerezza”, anche espositiva, che sta introducendo straordinarie novità.
Quando il sindaco di Firenze, commentando lo stallo istituzionale che bloccava (blocca ancora?) la politica italiana, ha rilevato come la Chiesa avesse fatto prima dello Stato a rinnovare il suo vertice, ha detto qualcosa di molto più vero di quanto potesse immaginare. Perché non solo la Chiesa ha velocemente colmato, trovando subito un successore al dimissionario Benedetto XVI, il vuoto di potere ma lo ha anche evidentemente riempito con una nuova e decisa guida, capace di affrontare molto prima di quanto si potesse immaginare – e certo molto prima dei politici italiani – il tema di spinosissime quanto irrinunciabili riforme.
Diamo un nome alle cose
Altro che tenerezza, quindi, Bergoglio si sta piuttosto proponendo sempre più come il Papa della concretezza, e gli ultimi due giorni sono lì a dimostrarlo. Prima il colpo di mercoledì allo Ior, a proposito del quale il Papa ha espresso una semplice quanto epica opinione: cioè che semplicemente la Chiesa potrebbe tranquillamente rinunciare alla “sua” banca. E poi l’apertura di ieri ai divorziati, per i quali «si deve trovare una soluzione» che gli concedea di accedere finalmente al sacramento delle Comunione, che gli è al momento precluso.
Non ci sarebbe niente di più sbagliato che considerare il tema come materia per una disputa teologica fine a sé stessa, si tratta invece di qualcosa che interessa un numero enorme di fedeli che patiscono l’esclusione dal sacramento e che da anni domandano in varie forme il “superamento” di questa situazione.
Al punto il tema è sentito che anche uno straordinario animale politico come Berlusconi non esitò a farsi interprete dell’istanza, durante un suo soggiorno estivo in Sardegna, quando si rivolse al vescovo di Tempio Pausania dicendogli «Lei che ha potere si rivolga a chi è più in alto di me», chiaramente per intercedere presso le alte sfere vaticane affinché valutassero il desiderio dei divorziati di rientrare a pieno titolo nel “gregge” di Santa Romana Chiesa.
Ma l’ex premier è stato più volte protagonista di polemiche relative all’ammministrazione del sacramento della Comunione per i divorziati. Polemiche alle quali ora Papa Francesco vuole evidentemente mettere un punto con la sua spinta riformatrice.
Certo, alla Chiesa non mancano temi intorno ai quali da anni si addensano desideri di riforma, capaci di introdurre nel complesso corpaccione della Curia la consapevolezza dell’irrimediabile necessità di aprirsi in qualche modo alla modernità. Vari tentativi, anche formalmente approcciati, non sono mancati nel recente passato, ma si è trattato di argomenti poco affascinanti per il vasto “pubblico” meno attento ai cavilli della dottrina. Così per qualche anno si è parlato della fantomatica “abolizione del Limbo” e del controverso destino dei bambini morti senza battesimo o di altre questioni decisamente meno comprensibili ai più.
Il Pastore conosce la politica
Bergoglio ha scelto infatti tutta un’altra strada, ovvero quella dell’incontro con il maggior numero possibile di “cittadini” della Chiesa. Con la ventilata possibilità di fare a meno dello Ior e la ricerca di una soluzione per concedere la Comunione ai divorziati si definisce un campo di incidenza sconfinata, e che per la sua vastità assume innegabilmente i tratti di una scelta anche politica. Si potrebbe dire, quindi, che Papa Francesco ha ben chiaro il principio secondo il quale non si possono realizzare rivoluzioni non condivise e sostenute dalle masse. Le sue “tenere” aperture restituiscono, in questo modo, il tratto del più politico dei pastori che la Chiesa si potesse procurare. Non per questo si deve dire che Bergoglio abbia inventato qualcosa. Giovanni Paolo II, pure non avendone realizzate molte di riforme, aveva chiaro il concetto della rivoluzione al punto di averlo tradotto a chiare lettere nella sua dottrina: parlando alla folla a Cuba, disse: “Cristo è un riformatore sociale?”. E si rispose: “Mucho mas!”.