C’è il cessate il fuoco, sempre che tenga. C’è la promessa di cessate il fuoco ma ieri sono stati uccisi almeno 20 bambini e 25 donne. C’è il cessate il fuoco e ci sono le macerie. Le macerie di Gaza non sono solo pietre. Ogni frammento è il testimone muto di un’infanzia rubata, di famiglie spezzate, di sogni mai nati. I numeri dell’Unicef sono un grido sordo: 14.500 bambini morti, migliaia di feriti, 17.000 orfani di guerra. Nella Striscia, meno della metà degli ospedali è operativa, l’acqua scarseggia, le scuole sono ombre di ciò che erano. Quasi un milione di persone è sfollato, e l’insicurezza alimentare è una condanna per tutti. Il cessate il fuoco è arrivato come un sussurro in mezzo al frastuono delle bombe, ma da solo non basta. È un fragile spiraglio che può chiudersi in un attimo, a meno che non si trasformi in una via verso una soluzione politica reale.
La direttrice dell’Unicef, Catherine Russell, ha parlato di una risposta umanitaria massiccia, indispensabile per curare le ferite di una terra agonizzante. Vaccini per 420.000 bambini, acqua potabile, assistenza psicologica, scuole da ricostruire. Ma nulla di questo avrà senso senza un impegno globale che metta fine a questo perpetuo sterminio. Ogni giorno di ritardo è un colpo inferto a chi già vive nel baratro. Le macerie di Gaza ci guardano, con il peso della nostra inadeguatezza. Non basta conteggiare i morti o inviare aiuti. La guerra è stata un fallimento e le macerie stanno lì a ricordarci che abbiamo fallito. C’è il cessate il fuoco ma la ricostruzione di Gaza no, ha bisogno di mattoni e di cemento. Ha bisogno di una comunità internazionale che smentisca tutto quello che ha fatto fin qui.