Beffa per le pensioni, la rivalutazione degli assegni tagliati non ci sarà

Per la Corte costituzionale è lecita la mancata rivalutazione piena delle pensioni più alte: nessuna speranza per la restituzione dei tagli.

Beffa per le pensioni, la rivalutazione degli assegni tagliati non ci sarà

Nulla da fare, la restituzione non ci sarà. Eppure ci avevano sperato quei pensionati che ricevono un assegno al di sopra delle quattro volte il minimo. Per la Corte costituzionale, però, il taglio della rivalutazione delle pensioni è corretto e gli importi ridimensionati non potranno essere restituiti a chi ha visto l’adeguamento solo parziale del proprio assegno mensile. I giudici hanno ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale posta da due sezioni territoriali della Corte dei conti dopo i ricorsi (avanzati da alcuni presidi) per contestare i tagli dell’adeguamento all’inflazione delle pensioni operati dal governo.

In particolare, la Corte costituzionale fa riferimento alla Manovra 2023 che ha previsto il raffreddamento della rivalutazione automatica delle pensioni il cui importo è superiore a quattro volte il minimo. Questo taglio non ha leso, secondo i giudici, i principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza che sono posti a garanzia dei trattamenti previdenziali. Quindi vengono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, dopo i ricorsi, da alcune sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti. Con la manovra 2023 il governo aveva deciso di non applicare la piena rivalutazione degli assegni con importi quattro volte superiori al minimo, un meccanismo che secondo i giudici costituzionali “non è irragionevole perché salvaguarda integralmente le pensioni di più modesta entità”. Insomma, è stato sufficiente salvaguardare le pensioni con trattamenti fino a quattro volte il minimo.

Pensioni, i nodi rimasti irrisolti sulla rivalutazione degli assegni

La Corte costituzionale ritiene che questo meccanismo è consentito perché riduce la percentuale di indicizzazione al crescere degli importi, di fatto basandosi sul principio che le pensioni più alte hanno una maggiore resistenza agli effetti dell’inflazione. Ma sottolinea anche come questo meccanismo venga applicato “per un periodo limitato”. Proprio questo è il punto da rimarcare, perché il periodo inizia a essere ormai ben poco limitato, considerando che per il governo sembra diventata un’abitudine, come dimostrato anche dall’ultima manovra che per il 2025 prevede una rivalutazione parziale degli assegni previdenziali per i trattamenti superiori a quattro volte il minimo.

In ogni caso, per i giudici le scelte del legislatore sono coerenti con le finalità di politica economica, soprattutto perché l’obiettivo è frenare gli effetti dell’inflazione sulle classi sociali meno abbienti. Inoltre, spiegano, il legislatore potrà tenere conto delle perdite subite dalle pensioni non rivalutate integralmente in caso di future manovre sull’indicizzazione. Ma, come sappiamo, il governo non l’ha fatto. E così queste perdite, che vengono stimate in circa 37 miliardi a regime, non verranno compensate. Tanto che il governo ha confermato la mancata rivalutazione anche per quest’anno. Insomma, i ricorsi probabilmente non sono finiti.