Francis Ford Coppola voleva raccontare il sogno degli emigrati in America, ma forse aveva sottovalutato l’eco che avrebbe prodotto il suo Padrino facendo identificare per troppo tempo l’italiano all’estero, con il mafioso. Quando uscì, molte associazioni protestarono per impedire la proiezione. L’immagine dell’Italia non coincideva con quella custodita dagli emigrati: i valori autentici, la famiglia, il sacrificio.
Non ci riuscirono e il Padrino diventò ugualmente immortale. “Questo è il rischio che si corre quando si parla romanzescamente di mafia. Io questo rischio non lo voglio correre per questo ha un posto marginale nei miei romanzi“.
Lo scrittore Andrea Camilleri ha deciso di non raccontarla la mafia, nei suoi libri: per non celebrarla.
In un’intervista che mi rilasciò in radio, nel programma La bellezza contro le mafie, mi spiegò che “anche in un pessimo romanzo parlare di mafia è come farne pubblicità. In un buon romanzo il rischio è far diventare il mafioso un eroe”.
Camilleri non è il solo ad interrogarsi sulla responsabilità che il narratore ha nei confronti della società che difficilmente resta impermeabile a certe fascinazioni. Il pericoloso effetto emulazione, l’empatia nei confronti del male è da sempre al centro di numerose discussioni.
Il male, per molti, per non essere mitizzato, non dovrebbe trionfare.
Bisognerebbe non veicolare troppo l’interesse verso il carnefice, ma mantenere viva la fiammella nei confronti del bene, della vittima.
Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, nel 2009, imputò alla serie Romanzo Criminale, ispirata alle vicende della Banda della Magliana, il dilagare di episodi violenti nella capitale.
Sembrava una voce ridicola fuori dal coro, soprattutto se si considera tutto ciò che Roma ha dovuto attraversare e risolvere negli anni e non certamente a causa di serie televisive, ma di reali reati e incurie.
Eppure oggi un altro sindaco si scaglia contro la televisione. Rea di essere cattiva maestra perché qualcuno ha deciso di attribuirle questo onere: è il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris.
Torna a infierire contro Gomorra, contro Roberto Saviano, tirando in ballo anche un simbolo, a suo dire ormai superato: le vele.
Come se ce le avesse messe Saviano lì, come se le sentinelle, i rifiuti, gli abitanti abusivi, la droga e violenza, fossero parte della sceneggiatura e non reali. Per troppi anni gli abitanti di Scampia avevano chiesto che fossero abbattute. Che al loro posto potessero sorgere luoghi di aggregazione, associazioni, parchi giochi.
Anni perché lo raccontavo nelle mie inchieste, quando questa serie non era ancora nemmeno in incubazione.
E allora è vero che questo è il Paese che ha ferite ancora sanguinanti, che ha bisogno che si racconti la storia di Felicia Impastato, dei giornalisti uccisi dalla mafia, degli agenti di scorta di cui si ignora troppo spesso il nome.
Ma non si può evitare di sperimentare, di scrivere serie in cui il male viene raccontato così com’è: crudo.
Se volessimo scandalizzarci dovremmo essere lettori più attenti di cronaca locale. Dove purtroppo non c’è nessuno spazio per l’immaginazione.
La seconda serie di Gomorra ha sfidato la nostra cultura, gli schemi narrativi a cui eravamo abituati. Ha cancellato la presenza dell’eroe buono, sostituendolo con personaggi che non vacillano. Non ci sono margini per la salvezza.
Ma è narrazione. Finzione cinematografica. E anche ben fatta. (La seconda è un piccolo gioiello costruito su sguardi e silenzi di padre e figlio).
Scrosati l’ha twittato: “ce l’abbiamo proprio messa tutta”. E così è stato. Promozione perfetta, attori a cui ci siamo affezionati a tal punto da farci rimpiangere perfino donna Imma.
Allora non è che a fare davvero paura è il successo altrui?