di Vittorio Pezzuto
L’intervista a Il Mattino del giudice della Cassazione Antonio Esposito fornisce un assist tanto involontario quanto clamoroso ai legali di Silvio Berlusconi e offre alla dirigenza del Pdl un’occasione preziosa per imbastire una robusta campagna estiva di comunicazione. Preso atto della burocratica richiesta di informazioni formulata dal Guardasigilli e registrate con comprensibile scetticismo tanto le sentenze di “inopportunità” emesse dal presidente della Suprema Corte Giorgio Santacroce e dall’Anm quanto l’apertura di un fascicolo da parte del Csm, sarebbe adesso opportuno reagire in punta di diritto alle incaute dichiarazioni pronunciate dal presidente del collegio che ha emesso la sentenza definitiva di condanna del Cavaliere.
Che tanto definitiva potrebbe non essere, dal momento che si apre infatti per i legali del Cavaliere la possibilità di proporre quel ricorso straordinario per errore di fatto stabilito dall’articolo 6 della legge n. 128 del 26 marzo 2001 e previsto dall’articolo 625-bis del Codice di procedura penale. La norma parla chiaro: «È ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione. La richiesta è proposta dal procuratore generale o dal condannato, con ricorso presentato alla corte di Cassazione entro centottanta giorni dal deposito del provvedimento. La presentazione del ricorso non sospende gli effetti del provvedimento, ma, nei casi di eccezionale gravità, la corte provvede, con ordinanza, alla sospensione».
La lettura dell’intervista resa dal giudice Esposito rende possibile tutto questo. Il magistrato ha infatti escluso che la condanna di Berlusconi possa essere stata decisa sulla base del principio del “non poteva non sapere”: «Questa è una stupidaggine, in realtà è stato detto, ma così si dice anche spesse volte per inciso […], è una argomentazione logica, non è un principio di diritto, può significare niente e può significare qualcosa, ma non mi portare in coppa a stu coso». Ha poi aggiunto: «Noi non andremo a dire “quello non poteva non sapere”, noi potremo dire nella motivazione eventualmente tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva, non è che tu potevi non sapere perché eri il capo, pure il capo potrebbe non sapere. Cioè è sempre la valutazione in fatto, tu non potevi non sapere perché Tizio, Caio e Sempronio hanno detto che te l’hanno riferito, e allora è uno poco diverso».
Tre quesiti cruciali
Confermate da una registrazione audio, le dichiarazioni rese a Il Mattino non possono non suscitare diversi interrogativi. Primo: cosa significa «potremo dire nella motivazione»? Non sarà che si è deciso di condannare comunque l’ex premier, riservandosi di trovare a posteriori una giustificazione plausibile del rigetto del ricorso? Secondo: Esposito ammette che la condanna sta in piedi solo se negli atti del procedimento di appello si trova una testimonianza – lui dice più di una, riferendosi a «Tizio, Caio e Sempronio» – o un dato di fatto che qualcuno abbia riferito a Berlusconi quanto stava accadendo nell’azienda. Ma negli atti del processo questa circostanza non viene mai contestata e nessun testimone in questo senso è mai stato prodotto dall’accusa. Per quale motivo allora è stato rigettato il ricorso della difesa? Terzo: ma se al presidente della sezione non sono chiare le motivazioni a supporto della condanna in appello (contestate in 41 punti dall’avv. Coppi), come ha fatto la sezione che presiedeva a rigettare il ricorso?
Sono quesiti cruciali, che esigono risposte convincenti al di là di quello che scriveranno ora nella motivazione i giudici dopo quanto detto dal loro presidente. Per questo è probabile che gli avvocati di Berlusconi decidano di proporre il ricorso straordinario. Anche perché proprio nella sentenza n. 2878 del 17 luglio 2012 delle sezioni unite della Cassazione si sottolinea come l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del ricorso straordinario, consiste in «un errore di tipo percettivo causato da una svista o un equivoco» in cui la Cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e «connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto ad una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di essa». Proprio quello che, ascoltata l’intervista di Esposito, sembra aver fatto il collegio giudicante della sezione feriale dell’Alta Corte.