Altro che attenzione e giustizia. Nel comitato incaricato di monitorare la salute dei militari impiegati nei Balcani, per accertare se siano rimasti vittime di tumori a causa dell’esposizione all’uranio impoverito, non ci sono più da tempo neppure gli scienziati. L’analisi dei dati raccolti dai burocrati ministeriali è stata però sufficiente a far invertire bruscamente rotta sia al ministro della difesa, Elisabetta Trenta, che alla collega della salute, Giulia Grillo, che hanno presentato alla Camera una relazione choc. Per loro non vi è alcuna correlazione tra le missioni in Bosnia e Kosovo e le patologie tumorali di cui sono stati vittime tanti soldati. Anzi. I dati alla base del rapporto dimostrerebbero che chi ha operato in quelle aree godrebbe di salute migliore dei colleghi rimasti in patria. E non sarebbe dunque neppure più necessario proseguire nel monitoraggio.
LA RELAZIONE. Nel documento presentato da Trenta e Grillo non c’è traccia degli allarmi lanciati nella scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare d’inchiesta in materia e neppure delle molte sentenze, alcune definitive, con cui i giudici hanno condannato lo Stato a risarcire i soldati che, senza essere informati dei rischi a cui andavano incontro e senza aver ricevuto le necessarie protezioni, hanno perso la vita soprattutto per i linfomi di Hodgkin. Dopo i primi accertamenti compiuti dalla commissione istituita proprio dalla Difesa nel 2000, presieduta dall’ematologo Franco Mandelli, il monitoraggio dei militari impiegati nei Balcani è stato affidato a un Comitato tecnico-scientifico interministeriale, decaduto però nel 2007. Da allora nessuna guida scientifica e a lungo anche nessuna relazione al Parlamento. Aboliti dal 2011 pure i fondi per visite e test di laboratorio, ad esaminare i dati raccolti tra il 2007 e il 2017 è rimasto solo il personale degli uffici amministrativi dei Ministeri della difesa e della salute. Abbastanza per far sostenere a Grillo e Trenta che sull’uranio impoverito vi sarebbe stato dunque solo un abbaglio.
DIETROFRONT. Controllate 9.404 schede, relative a 2.527 militari, che hanno effettuato 2.398 missioni in Kosovo e 840 in Bosnia, della durata media di 180 giorni, i due ministri hanno sostenuto che non vi sono collegamenti tra le attività in quei contesti, dunque con l’esposizione all’uranio impoverito, e gli “stati patologici insorti”. Nessun aumento della mortalità confrontando i decessi dei soldati che hanno operato nella ex Jugoslavia e il resto della popolazione. Trenta e Grillo sono sicure che quelle missioni non siano state un rischio e secondo loro dopo quindici anni di monitoraggi sarebbe opportuno anche riflettere “sull’opportunità del proseguimento” di quei controlli. E pensare che appena sette mesi fa Trenta, intervenendo sul tema e sostenuta da Grillo, aveva sostenuto che in passato c’era stato “un assordante silenzio” e che ora “non è più accettabile”.