Appropriazione indebita di fondi europei. Le Pen condannata, non potrà candidarsi per cinque anni

Condannata per aver usato fondi Ue a fini di partito, Marine Le Pen rischia l’ineleggibilità e l’esclusione dalla prossima corsa all’Eliseo

Appropriazione indebita di fondi europei. Le Pen condannata, non potrà candidarsi per cinque anni

Marine Le Pen è colpevole. Non è uno slogan, non è un’opinione. È una sentenza del tribunale di Parigi, pronunciata con quella secchezza che solo la giustizia sa avere quando mette a nudo l’ipocrisia. La leader del Rassemblement National è stata condannata per appropriazione indebita di fondi pubblici: 2,9 milioni di euro sottratti al Parlamento europeo, serviti non per l’attività politica comunitaria ma per retribuire assistenti che lavoravano in Francia, al servizio del partito.

Per capirci: soldi europei usati per fare politica anti-europea. Il paradosso non è casuale, è metodo. Dal 2004 al 2017, Le Pen ha fatto dell’Europa il bersaglio privilegiato del suo populismo, intascando però le risorse che quell’istituzione metteva a disposizione. È la grammatica del sovranismo di plastica: gridare “ladri!” mentre si mettono le mani nel portafoglio dell’avversario. L’appropriazione indebita, d’altronde, è la forma più meschina del tradimento: quella che scava nel torace delle istituzioni mentre si agita una bandiera.

Un colpo alla candidatura presidenziale

Il processo ha coinvolto altri otto eurodeputati del Rn e dodici assistenti parlamentari, giudicati colpevoli di ricettazione. La procura aveva chiesto per Le Pen cinque anni di carcere, di cui tre con la condizionale, 300mila euro di multa e soprattutto l’ineleggibilità per cinque anni, con effetto immediato. Una pena che, se confermata nei dettagli, potrebbe tagliarla fuori dalla corsa presidenziale del 2027. Un colpo diretto a chi, secondo i sondaggi, era favorita per il primo turno.

In aula, Le Pen non ha reagito. Seduta in prima fila, vestita di blu, al fianco del suo ex compagno e vicepresidente del partito Louis Aliot, ha mantenuto la sua maschera di calma ostentata. “La paura non fa superare il pericolo”, aveva detto nei giorni precedenti alla stampa. Ma la sentenza è arrivata. E, più del carcere, fa paura il timbro dell’ineleggibilità: tocca l’orgoglio, la narrazione, la costruzione familiare della leadership. È la prima crepa seria nell’impalcatura che la voleva inevitabile, vincente, destinata.

Una sentenza che scardina il mito

Perché questa condanna non è solo giudiziaria: è politica, storica, identitaria. Marine Le Pen ha ereditato un partito fondato da un padre condannato per razzismo e negazionismo. Ha tentato la “dédiabolisation”, ha smussato gli angoli, ha tolto le fiamme dal simbolo. Ma il cuore del progetto è rimasto lo stesso: fare politica come affare personale. E ora quel passato torna a bussare alla porta con una sentenza che chiama le cose con il loro nome.

Sotto la scorza della candidata “normalizzata”, restava il metodo da clan. E questa volta non si tratta di tweet scomposti, di battute xenofobe o di nostalgie coloniali. Stavolta si parla di soldi. Di milioni. Di un sistema che ha aggirato le regole per finanziare una macchina di consenso. Che sia avvenuto proprio dentro le istituzioni che Le Pen dice di voler distruggere è la misura della sua coerenza.

Il contraccolpo politico è già iniziato. Jordan Bardella, il delfino designato, potrebbe prenderne il posto. Ma anche questa eventualità dice molto: l’alternanza dinastica come unico piano di successione, in un partito che si dichiara alternativo a tutte le caste. La condanna non scalfisce solo la credibilità politica, ma disegna in controluce la struttura reale di un’organizzazione che ha sempre fatto del moralismo aggressivo la sua arma retorica.

Marine Le Pen è stata sconfitta nei tribunali. Lo sarà anche nella narrazione? Dipende da quanto ci crediamo ancora al vizio di dire che “sono tutti uguali”, anche quando uno ruba e l’altro no. Dipende se siamo pronti a chiamare le cose con il loro nome, senza paura. E magari cominciare a dire ad alta voce che l’onestà non è di famiglia. Nemmeno quando porta il cognome Le Pen. Nemmeno se ha il 37% nei sondaggi. Nemmeno se si veste di blu.