Parte tutto dal secondo governo Berlusconi e il suo decreto legislativo 276 del 10 settembre del 2003. Lì è stato abrogato l’obbligo di parità di trattamento tra i dipendenti del committente e quelli dell’appaltatore previsto da una legge del 1960. “L’eliminazione di questa tutela, la depenalizzazione dell’appalto illecito e la cancellazione del limite per cui l’azienda non poteva esternalizzare attività che normalmente dovrebbe dare in casa, hanno funzionato da detonatore”, spiega Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil. Siamo arrivati fin qui, dove gli appalti e i subappalti sono il pane quotidiano che alimenta lo sfruttamento e i morti di lavoro. Ogni volta che cambia l’appalto e cambia l’azienda si mette in discussione il posto di lavoro, il salario o una parte del salario, l’anzianità. Nel settore privato ancora di più.
Nel settore pubblico i numeri sono importanti. 290 miliardi di euro di affidamenti nel 2022, più 39 per cento rispetto all’anno precedente, più 56 per cento sul 2020. Le procedure di gara sono state 233 mila. Numeri che coprono gli appalti di servizi e gli appalti di lavori, comprese le grandi opere connesse al Pnrr. La gara tra chi propone di fornire il servizio si gioca nella quasi totalità dei casi sull’offerta più bassa o più vantaggiosa. Come spiega la Cgil l’appalto è stato usato come strumento di contenimento della spesa, espellendo tutta una serie di attività come per esempio la mensa, le pulizie, la lavanderia, la manutenzione negli ospedali. Ora siamo addirittura di fronte all’esternalizzazione di funzioni primarie, come ci dimostra il fenomeno dei medici a gettone”. Ma l’impresa che si aggiudica l’appalto su cosa risparmia? Sui tempi di esecuzione e sui costi necessari a svolgere l’attività, quindi sui materiali, sulla sicurezza, sul lavoro. Le vittime collaterali sono i lavoratori.