di Vittorio Pezzuto
Giorgio Napolitano ci ha lasciato una lezione: la presidenza della Repubblica è un organo (costituzionale) che può essere allargato o ristretto a seconda del contesto, occupando i vuoti lasciati dalla politica. E nel giorno in cui si inizia a votare per il Quirinale, un grande esperto delle cose del Palazzo, l’ex leader liberale Renato Altissimo, avverte i grandi elettori: «Napolitano ha creato un precedente molto pericoloso. Ha usato i suoi poteri con estrema larghezza per garantire una governabilità dal “suo punto di vista”. Se chi verrà adesso farà lo stesso, allora sì che potrebbe esserci un golpe».
Napolitano bye bye, senza rimpianti? «Il presidente uscente è stato alfiere dell’anima più liberale nel vecchio Pci. Lo conosco dai tempi della solidarietà nazionale. E in questi sette anni su molte cose ha fatto anche bene. Pensiamo ai giorni della tempesta finanziaria di fine 2011. Ma ha anche aperto una breccia sull’uso “improprio” del Quirinale. O ci siamo scordati le dimissioni imposte a Berlusconi, la nomina di Monti senatore a vita e la “benedizione” al suo governo imposto ai partiti?». La Costituzione però è formalmente salva. «Ma va là. Napolitano ha operato in un contesto in cui tutto ormai è irrituale. Scontiamo una Carta nata nel 1944 a Yalta, quando l’Italia viene destinata al di qua della cortina di ferro ma il Pci (e per suo conto l’Urss) chiede come garanzia un regime parlamentare con un esecutivo debole che non possa sfociare in un regime autoritario. Quell’impianto istituzionale è rimasto immutato e oggi ne scontiamo tutti i limiti. La ricetta giusta sarebbe quella della Quinta repubblica francese, che noi liberali avanzammo già nel 1992: elezione diretta del capo dello Stato e sistema elettorale uninominale a doppio turno».
D’Alema e Amato? Preferisco vivere
Altissimo osserva distaccato la girandola di nomi che impazza in queste ore. E se alla fine la spuntasse Massimo D’Alema? «Ho appena ascoltato un suo ottimo intervento all’Aspen. Sono convinto che gli abbia giovato la decisione di defilarsi rispetto alle polemiche di giornata e alle battagliette di partito. E’ cresciuto in credibilità e autorevolezza. Credo che sarebbe un buon capo dello Stato. Anche se…». Se cosa? «D’Alema è un ex comunista vero. Oggi certamente riformato. I comunisti perdono però il pelo ma non il vizio». Sarebbe il secondo comunista in cima al Colle. «Se per questo è stato il primo comunista alla Presidenza del Consiglio. Con i risultati che abbiamo visto tutti. Chiedere a Guido Rossi, che definì allora Palazzo Chigi “l’unica merchant bank dove non si parla inglese”. E sugli affari e le privatizzazioni dell’epoca, tipo Telecom, lasciamo perdere…». Gli facciamo il nome di Giuliano Amato. «Il “dottor sottile sottile” ha una buona esperienza di governo e uno spessore anche culturale. Certo, qualcuno non smette di contestargli il rapporto umano non troppo lineare che ha tenuto con Craxi nell’infuriare di Tangentopoli…». In effetti è uno dei pochi ad avere superato quella stagione senza riportare nemmeno una scalfittura. Non le pare strano? «Ma perché, con Tangentopoli che male si fece il Pci, poi Pds e Ds? Tutti usciti puliti come gigli. Evidentemente di santi ce n’erano tanti in paradiso. E Amato, che tradì Craxi, forse qualche santo l’ha trovato pure lui». Resta Romano Prodi. «La sua elezione accentuerebbe ulteriormente le divisioni. E’ un personaggio troppo coinvolto nella storia economica di questo Paese. Ricordo che ai tempi di Mani Pulite venne interrogato per un paio d’ore dallo stesso Antonio Di Pietro. Con sorpresa di molti, uscì da quell’ufficio senza alcuna conseguenza. Non così il suo successore alla guida dell’Iri Franco Nobili (stava lì da poco meno di due anni), che invece venne sbattuto in galera per sei-sette mesi e senza alcuna accusa formale a suo carico. Non lo trova curioso?».
Gli scheletri nell’armadio di Prodi
Gli chiediamo se pensa che vi possano essere scheletri nell’armadio dell’ex premier. «Non saprei. Certo, leggendo le carte il sospetto viene naturale». Piccola pausa. Decide quindi di spiegarsi con un ricordo di quand’era ministro dell’Industria. «Nel gennaio 1985 conobbi a Nizza l’amministratore delegato della Heinz, il colosso mondiale del settore alimentare che produce tra l’altro il famoso Ketchup. Fattomi i complimenti per l’orientamento del governo Craxi in materia di privatizzazioni, si disse molto interessato all’acquisto della Sme, il fiore all’occhiello della nostra industria pubblica agroalimentare (suoi erano importanti marchi come Motta, Alemagna, Bertolli, i supermercati Gis e Autogrill). Gli americani erano disposti a pagare molto bene: una grossa opportunità per le casse dello Stato. Ne parlai subito a Prodi, che per tutta risposta si fece una grande risata. Il presidente dell’Iri mi spiegò che non era minimamente possibile pensare a una cessione della Sme: l’azienda era zeppa di liquidità e quindi indispensabile per far quadrare i conti del gruppo. Il suo prezzo, aggiunse, era inoltre molto elevato: circa 3.500 miliardi di lire. Dopo qualche mese mi chiamò l’ingegner Carlo De Benedetti e mi annunciò di aver concluso l’accordo per acquisire la Sme. Immagini però il mio sconcerto quando venni a scoprire che l’azienda era stata venduta per appena 497 miliardi di lire, per di più pagabili in cinque anni». E Prodi? «Fu proprio lui a telefonarmi: “Renatino, volevo dirti che ho venduto la Sme. Sarai contento finalmente” aggiunse ironico. Per tutta risposta gli chiesi conto di un realizzo per lo Stato sette volte inferiore al valore che lui stesso mi aveva dato dell’azienda, per non dire degli altri soggetti interessati e pronti a offrire di più. “Ma sai, De Benedetti ha un taglietto sul pisello che altri non hanno” mi rispose serafico, alludendo a presunte pressioni di non meglio precisate consorterie ebraiche. Una versione che non stava in piedi. Ma l’uomo è questo». Prodi presidente della Repubblica potrebbe mai diventare il garante dell’unità del Paese? «Dipende dall’ora del giorno» sibila ironico il vecchio leader liberale. «Vede, l’uomo è di grandissime ambizioni. Possiamo sempre sperare che, nella malaugurata ipotesi di una sua elezione, riesca a cambiare perché finalmente appagato».