L’Enel sdogana gli impresentabili. La legalità è un optional anche nelle partecipate pubbliche. E l’azienda di Starace cancella i paletti del Tesoro

di Stefano Sansonetti

Alla fine è stata una lunga barzelletta. Ma la conclusione non ha fatto ridere nessuno. Il dato certo è che i tanto sbandierati requisiti di onorabilità per gli amministratori delle società quotate, rilanciati a più riprese dal Governo guidato da Matteo Renzi, si sono dissolti come neve al sole. Eni, Enel, Finmeccanica e Terna hanno sbattuto la porta in faccia a quello che era stato presentato come un presidio di trasparenza e legalità, tanto più sentito in un momento da questo punto di vista non facile per il Paese. Eni, Finmeccanica e Terna, a dir la verità, si erano già opposte all’ingresso nel loro statuto dei principi prima fissati dall’ex ministro dell’economia, Fabrizio Saccomanni, e richiesti fino a non più di un anno fa dall’attuale titolare del dicastero di via XX Settembre, Pier Carlo Padoan. L’ultima marcia indietro è andata in scena ieri, in occasione dell’assemblea dell’Enel.

LA MOSSA
Ebbene, su proposta del consiglio di amministrazione è stato approvato un ammorbidimento dei requisiti di onorabilità. Se prima il colosso elettrico aveva previsto l’ineleggibilità o la decadenza di un consigliere di amministrazione nel caso di rinvio a giudizio e condanna (anche soltanto di primo grado), adesso le stesse misure scattano solo in presenza di una condanna. Nonostante questo l’Enel, oggi guidata dall’Ad Francesco Starace, rimane l’unica società quotata ad avere requisiti di onorabilità, seppur in versione leggera. E questo, se per caso ce ne fosse ancora bisogno, dà la misura del fallimento dell’operazione legalità tanto decantata dal Governo. Il primo tentativo di “moralizzazione” era stato fatto dal governo di Mario Monti. Poi è arrivato l’esecutivo di Enrico Letta, che con una direttiva del 24 giugno del 2013, predisposta dall’allora ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, ha messo per iscritto le varie cause di ineleggibilità o decadenza per gli amministratori. Il Governo Renzi ha convintamente ereditato la direttiva, al punto che Padoan, in una lettera inviata alle società quotate in occasione delle assemblee di un anno fa, aveva chiesto il recepimento dell’atto. In sostanza Padoan aveva ribadito che costituiscono causa di ineleggibilità o decadenza la condanna (anche non definitiva) o il decreto che dispone il giudizio per vari tipi di reati in materia bancaria, finanziaria e contro la Pubblica amministrazione. Le assemblee di Finmeccanica, Eni e Terna avevano sin da subito respinto la proposta di recepimento del Tesoro. L’Enel, proprio nell’assemblea di passaggio delle consegne da Fulvio Conti a Starace, aveva da sola deciso il recepimento integrale. Il quale, tempo fa, è costato caro a un ex consigliere di amministrazione, l’alfaniano Salvatore Mancuso, costretto a dimettersi proprio perché rinviato a giudizio. Ieri, invece, la marcia indietro, con la limitazione della decadenza ai soli casi di condanna.

GLI SVILUPPI
Ma perché questa decisione? C’è qualcun altro nel Cda dell’Enel che avrebbe rischiato la poltrona? La giustificazione data in assemblea dalla presidente della società, Patrizia Grieco, è che la correzione serve a garantire la stabilità della gestione aziendale. Come dire: basta la valutazione “garibaldina” di un qualsiasi giudice a far decadere un componente del Cda. Preoccupazione, va detto, non priva di fondamento, anche perché le società quotate hanno già al loro interno presidi di legalità. Semmai tutta la vicenda può far riflettere su come il Governo Renzi abbia cavalcato un’ondata “moralizzatrice” un po’ populista. In caso contrario non si capirebbe come mai, una volta incassati i primi rifiuti, lo stesso Tesoro guidato da Padoan abbia rinunciato a proporre l’adozione della clausola etica nelle assemblee successive. Insomma, tanto rumore per nulla.

Twitter: @SSansonetti