Come diceva il ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida? Che “da noi i poveri spesso mangiano meglio dei ricchi”? A sbugiardare il cognato della premier e a rilevare l’infondatezza della sua affermazione ci sono gli ultimi dati Istat sulle vendite al dettaglio e il Rapporto Coop 2023.
Il Report Coop: “Il carovita getta 27 milioni di persone in situazioni di disagio. La social card non basta, la risposta è il salario minimo”
I primi ci dicono che con la crescita dei prezzi si spende di più per comprare meno: a luglio le vendite al dettaglio dei beni alimentari sono cresciute su giugno dello 0,8% in valore mentre sono stazionarie in volume. Ma rispetto a luglio dello scorso anno si registra una crescita del 5,6% in valore e un calo del 4,7% in volume. Il Rapporto Coop invece ci dice che molti italiani, ovviamente quelli più in difficoltà, stanno riducendo i consumi sia sulla quantità che sulla qualità e sembrano in procinto di arrendersi alla guerra contro un’inflazione che ha rincarato di oltre il 21% il costo dei beni alimentari e che non promette di arrestarsi prima dei prossimi due anni (il 72% dei manager del settore ritiene che l’inflazione alimentare non tornerà sotto il 2% prima del 2025).
I carrelli diventano leggerissimi: -3,0% la variazione delle vendite a prezzi costanti nei primi 7 mesi dell’anno. Dopo la riduzione delle quantità acquistate, con l’arrivo dell’autunno – e l’ulteriore aumento dei prezzi – gli italiani sembrano pronti a cambiare nuovamente strategia grazie ad un quotidiano impegno per contenere gli sprechi, alla rinuncia ai prodotti non strettamente necessari e a quelli a maggiore contenuto di servizio. Ma soprattutto, checché ne dica Lollobrigida, se è sempre più articolata l’identità alimentare della parte economicamente e culturalmente più attrezzata del Paese, nell’ultimo anno sono raddoppiati quanti – oramai 1 italiano su 5 soprattutto baby boomers e appartenenti alla lower class – dichiara di aver perso ogni riferimento identitario abbandonando anche i dettami della cultura tradizionale, delle tipicità e del territorio.
Questo significa che si riducono i consumi di qualità e di prodotti importanti per la salute e per la dieta come frutta e verdura (il consumo si è ridotto del 15,2% negli ultimi due anni, e per il 16% degli italiani si ridurrà ancora). Nei prossimi mesi le intenzioni di spesa degli italiani fanno segnare una brusca inversione di rotta (36% quelli che intendono ridurre i consumi contro solo l’11% che pensa di aumentarli). Il lavoro che sinora sembra esserci è un lavoro che non paga quanto dovrebbe – il 70% degli occupati dichiara di avere necessità almeno di un’altra mensilità per condurre una vita dignitosa – e ne deriva la tendenza sempre più evidente a aggiungere lavoro al lavoro come strategia di difesa dal carovita.
A dispetto di questo ulteriore impegno, comunque l’impatto devastante dei prezzi trascina quasi la metà degli italiani (27 milioni di persone, in crescita del 50% rispetto al 2021) in una condizione di strisciante disagio. Campioni nelle rinunce (calano le compravendite immobiliari, le auto, i beni tecnologici), gli italiani hanno sostituito il nuovo con l’usato (33 milioni nell’anno passato hanno venduto o acquistato beni usati).
Impossibile fare la spesa come prima. A molti servirebbe una mensilità in più
Da qui la richiesta a mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori attraverso il taglio del cuneo fiscale e con la detassazione degli aumenti salariali e ad aiutare la parte più debole del Paese non solo attraverso la social card per gli indigenti ma anche attraverso il sostegno all’introduzione del salario minimo. Un’emergenza quella del caro vita a cui il governo – il dossier è nelle mani del ministro Adolfo Urso – cerca di rispondere con un patto anti-inflazione che i consumatori hanno già bocciato come fumoso e inconcludente.