Volano parole grosse, gli animi si surriscaldano. E c’è già chi scommette e spera che la coppia di fatto, formata un anno fa da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, finirà di qui a breve per scoppiare, travolta dal grande gelo piombato dalla Russia(gate) a raffreddare l’incandescente partita europea per un posto al sole dell’Italia nella squadra della Commissione Ue. Liti che capitano anche nelle migliori famiglie, anche se ultimamente la cadenza quotidiana delle beghe tra i due azionisti della maggioranza giustifica l’allarme sulla tenuta del Governo. Messa del resto in discussione in primis dallo stesso Salvini: “La finestra elettorale è sempre aperta, guardate questo bel cielo…”, dice il Capitano evocando apertamente – e con disarmante leggerezza – una crisi della quale, dovesse realmente aprirsi, sarebbe il principale responsabile.
Come pure della rinuncia alla poltrona di commissario europeo del candidato italiano naturale, Giancarlo Giorgetti. Che, fiutata l’aria, ha declinato informandone direttamente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Effetto inevitabile del dietrofront, dalla sera alla mattina, della Lega che, ad accordo raggiunto sul portafoglio europeo di primo piano da assegnare all’Italia, ha deciso in corsa di non sostenere più la Von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue. Una decisione politica, quella di Salvini, certamente legittima. Al contrario dell’accusa d’inciucio col Pd rivolta dal Capitano ai Cinque Stelle per l’appoggio decisivo all’ex ministra tedesca.
Un’accusa che non sta in piedi. Specie se formulata da chi, in oltre un anno di Governo gialloverde, non si è fatto scrupoli nel tenere il piede in due staffe. Anzi, in tre. Non sono d’altra parte i Cinque Stelle, ma il Carroccio, a governare l’Italia con una maggioranza e le Regioni, da Nord a Sud, con un’altra. Con quel Centrodestra formato dai cocci di ciò che resta di Forza Italia, faticosamente tenuti insieme da Silvio Berlusconi, e la ruota di scorta dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Tutti insieme, appassionatamente, nelle grandi ammucchiate di partiti e pseudoliste civiche imbottite di vecchi attrezzi della politica e di locali signori delle preferenze. Che puntualmente, quando poi si tratta di formare le Giunte e di assegnare poltrone, mettono la cambiale all’incasso.
Senza contare le geometrie variabili che, pure in Parlamento, quando fa comodo, il Carroccio non disdegna di disegnare. Non sono stati del resto i Cinque Stelle, ma la Lega, a votare insieme alle opposizioni l’emendamento al decreto Crescita targato Pd, che ha stanziato un ulteriore contributo di tre milioni di euro per salvare Radio Radicale. Ed è sempre la Lega a giocare di sponda con il Partito democratico per mettere i bastoni tra le ruote agli alleati in barba al contratto di Governo. è il caso, per esempio, del Tav Torino-Lione, sul quale, come recita il programma sottoscritto da Di Maio e Salvini che ha tenuto a battesimo l’Esecutivo Conte, i contraenti si sono impegnati “a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”.
E, nonostante i risultati dell’analisi costi-benefici, commissionata dal ministero delle Infrastrutture, abbiano certificato l’esorbitanza dei primi a scapito dei secondi, la Lega ha già chiarito che l’opera si deve fare. A prescindere. Esattamente come sostiene il Pd, con cui Salvini non avrà remore a votare di nuovo insieme quando e semmai la questione dovesse arrivare al voto del Parlamento. Ma non è tutto. Per il Carroccio il contratto è carta straccia pure sul salario minimo, benché i contraenti abbiano convenuto su un principio di basilare buonsenso: la “necessaria introduzione” di una paga oraria al di sotto della quale non si possa scendere per tutti i lavoratori la cui retribuzione minima “non sia fissata dalla contrattazione collettiva”.
Ma tra i 9 euro lordi l’ora proposti dai 5 Stelle e l’aleatoria controproposta del Pd, che non fissa alcuna cifra, la Lega preferisce la seconda. Ecco perché sentire Salvini affermare di aver “preso atto della svolta storica di Di Maio, con Renzi, Macron e Berlusconi” per il voto alla Von der Leyen, a fronte di impegni precisi e degli evidenti vantaggi dei quali l’Italia avrebbe beneficiato, fa onestamente ridere. Specie se l’accusa arriva da un sovranista che ha messo l’interesse del partito davanti a quello della Nazione.