Non solo Cambridge Analytica. Altri centri di potere stanno rastrellando valanghe di dati social. Per Rapetto, ex Gdf, c’è un solo rimedio: stop esibizionismo

Scandalo Facebook, parla Rapetto, ex specialista delle Fiamme Gialle: la gente smetta di essere esibizionista

di Stefano Sansonetti

Ciò che non si è fatto prima non si può fare certo adesso, con l’epidemia ormai scoppiata e del tutto incontrollabile. Anche perché non c’è solo Cambridge Analytica interessata a fare man bassa di dati prelevati dai social network, da utilizzare poi ai fini più vari, da quelli politici a quelli commerciali. Al punto che l’unica soluzione possibile, ora, è quella di “togliere benzina alla macchina”, ovvero “insegnare alla gente a mettere un freno alla voglia esibizionistica di esternare particolari della propria vita”. A usare queste parole è Umberto Rapetto, già generale della Guardia di Finanza, fondatore del Gat delle Fiamme Gialle, il primo gruppo anticrimine tecnologico. Rapetto, considerato uno dei massimi esperti italiani di minacce informatiche, ha poi abbandonato la Guardia di finanza (non senza qualche polemica), per passare a Telecom e infine mettersi in proprio. Sullo scandalo dei dati carpiti a Facebook, non si sa con quanta complicità da parte del social network, ha le idee molto chiare.
Generale, siamo a un punto di non ritorno?
“Siamo solo alla punta dell’iceberg, altri sicuramente ammetteranno di aver debordato nel rastrellare a fini commerciali e politici i dati degli utenti dei social”.
Faccia qualche nome.
“Inutile fare nomi, visto che si tratta di numerose coalizioni di interessi politici, commerciali, militari che trovano estrema facilità nella raccolta di questi dati. Del resto le regole di Facebook per i singoli utenti sono di centinaia di pagine incontrollabili, mentre quelle per i partner commerciali lasciano spazio a tutto ciò che non è espressamente vietato. Ma ciò che non è vietato è talmente vago da regalare enormi margini d’azione”
Sì, ma provi a dire cosa farebbe lei oggi se fosse a capo del Governo.
“Guardi, al punto in cui siamo l’unico modo di reagire è togliere benzina alla macchina. Intendo dire che gran parte della colpa è nostra, che non riusciamo a tenere a freno l’esibizionismo e la voglia di condividere dati della nostra vita. Bisogna insegnare alla gente a darsi un freno. Certo, per quanto riguarda l’Italia registro una totale latitanza delle Autorità. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti sono partite convocazioni a raffica, a volte anche con toni draconiani. Da noi invece non si è mossa foglia”.
In questi giorni in Parlamento (vuoto per il cambio di legislatura) è arrivato il decreto che attua la direttiva europea “Nis”, quella sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi. C’è qualche intuizione spendibile?
“Non mi faccia parlare del decreto, per carità”.
Cioè?
“Provvedimento del tutto inutile, che rimette a palazzo Chigi la lotta alle minacce cibernetiche. Ma che c’entra palazzo Chigi? L’intelligence in tema di cyber security compete al ministero della Difesa, come succede negli altri Paesi. Se invece parliamo di ricerca e sviluppo l’Italia dovrebbe dotarsi di un vero think tank governativo. Invece noi abbiamo tutta una serie di fondazioni tematiche il cui unico scopo è quello che raccattare soldi a destra e sinistra per vivere.
Il decreto stanzia 3 milioni l’anno per le nuove strutture deputate alla sicurezza informatica. Non sono un po’ poche?
“E’ la prova dell’incompetenza con cui si è trattata la faccenda”.