Il 12 luglio dell’anno scorso durante il vertice Nato a Vilnius la presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante la conferenza stampa (senza stampa) disse che “è importante il continuare a investire per rafforzare la nostra industria, le nostre capacità nella difesa”. perché “la nostra libertà ha un costo” e “perché quello che si investe in difesa torna dieci, cento volte tanto in termini di capacità di difendere i propri interessi nazionali”.
In quell’occasione era andata in scena la Meloni in versione internazionale, molto diversa nei modi e nei contenuti rispetto alla versione che va in scena qui in patria. La svolta atlantista della presidente del Consiglio nelle intenzioni era uno dei tasselli per recuperare “credibilità internazionale” e per rassicurare Bruxelles. Per questo la premier ce l’aveva con “quelli che dicono che dobbiamo smobilitare”. I pacifinti, li chiamano.
L’Italia lontana dall’obiettivo del 2% del Pil in spesa militare
Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderat , nell’Accordo quadro di programma per un governo di Centrodestra, hanno assicurato il “Rispetto degli impegni assunti nell’Alleanza Atlantica, anche in merito all’adeguamento degli stanziamenti per la difesa, sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione della Federazione Russa e sostegno ad ogni iniziativa diplomatica volta alla soluzione del conflitto” (qui il programma di coalizione). Oggi le promesse fanno i conti con la realtà: rispettare quegli impegni, almeno nel breve termine, sarà molto difficile se non impossibile.
Nel 2014 gli Stati dell’alleanza militare hanno concordato di portare le spese militari a un valore pari al 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil), un impegno poi confermato dai governi italiani entrati in carica negli anni successivi. Pagella politica osserva come le stime più aggiornate, pubblicate il 17 giugno dalla Nato, mostrano però che nel 2024 l’Italia sarà uno degli otto Paesi sui 31 membri dell’alleanza militare che non raggiungerà l’obiettivo del 2 per cento. L’anno scorso quelli che non hanno raggiunto questa soglia sono stati invece 21: dunque, secondo la Nato, 13 Paesi che nel 2023 non avevano centrato l’obiettivo del 2 per cento lo faranno quest’anno.
Dalla retorica atlantista agli impegni difficili da rispettare
Anzi, in Italia la percentuale di spesa in relazione al Pil è scesa. Secondo la Nato, quest’anno la spesa in difesa dell’Italia raggiungerà un valore pari all’1,49 per cento del Pil, mentre nel 2023 questa percentuale si stima sia stata pari all’1,50 per cento e nel 2022 all’1,52 per cento. La Nato considera come “spesa in difesa” i pagamenti effettuati dai governi per le necessità delle forze armate, inclusi gli stipendi, le pensioni, le operazioni di mantenimento della pace, e gli investimenti in ricerca e sviluppo, finanziati dai ministeri della Difesa e da altri ministeri.
Nell’analisi di Pagella politica sulla spesa in difesa espressa invece in valori assoluti e in termini reali, ossia corretta per tenere conto dell’impatto dell’inflazione, tra il 2023 e il 2024 quella italiana crescerà leggermente, passando da poco meno a poco più di 29,8 miliardi di dollari. La variazione percentuale è comunque dello 0,12 per cento, la più bassa tra tutti e 31 Paesi della Nato fatta eccezione per la Slovenia, dove si stima un calo dell’1,37 per cento. Tra i grandi Paesi dell’Unione europea, quest’anno rispetto al precedente in Germania la spesa aumenterà del 29,5 per cento, in Francia del 6,1 per cento e in Spagna del 9,3 per cento.
Il paradosso dell’atlantismo del governo sta nel dire ciò che non si riesce a fare e non fare ciò che si dice. La difesa dell’Ucraina e l’adesione alla Nato per Meloni è una postura obbligata per non perdere credibilità internazionale e non essere assimilata ai suoi alleati sovranisti europei. Ma la sicurezza internazionale – se la si vuole costruire a suon di bombe – non se ne fa nulla della solidarietà e delle promesse. Così alla fine i guerrafinti rischiano di fare più danni dei pacifinti di cui continuano a parlare.