di Stefano Sansonetti
Ormai siamo quasi arrivati a un miliardo di euro l’anno. Si tratta dell’incredibile assegno che lo Stato, ogni 365 giorni, deve staccare per ripianare il buco previdenziale delle Poste italiane oggi guidate da Massimo Sarmi. Un fardello che si sta appesantendo sempre di più e che pone due incognite di non poco conto. La prima riguarda la sostenibilità finanziaria di un meccanismo in base al quale lo Stato interviene ogni volta per metterci una pezza. La seconda rischia di assumere il volto critico della Commissione europea, che già in un analogo caso inglese ha ritenuto questo andazzo non compatibile con la disciplina degli aiuti di Stato. Insomma, una bomba previdenziale in piena regola, che non esplode solo perché interviene lo Stato. E meno male che le Poste vorrebbero pure entrare in Alitalia. La vicenda, tra l’altro, richiama in qualche modo l’allarme per i 10 miliardi di buco che l’Inps ha ereditato dall’Inpdap.
I numeri
Il dato certo è che nei meandri del mastodontico bilancio pubblico italiano ogni anno è previsto uno stanziamento “per il trattamento di quiescenza del personale dipendente delle Poste italiane”. Fino al 2010 questo assegno annuale veniva girato all’Ipost, ovvero l’istituto di previdenza per i lavoratori del colosso di Stato. Dal 2010 al 2012, tanto per fornire qualche cifra, il trasferimento in questione è stato di 990 milioni l’anno, la stessa cifra che è stata messa in cantiere per il 2013. Una cifra stabile, come si vede, che sembrerebbe slegata dalla normale fluttuazione della spesa previdenziale. Al punto da assumere quasi i connotati di un trasferimento forfettario (negli anni precedenti, per esempio, si era attestato sugli 810 milioni di euro). Ma fino a che punto può reggere, soprattutto se si considera che negli ultimi 6 anni con questo sistema lo Stato ha ripianato ben 5,5 miliardi di euro di buco previdenziale delle Poste italiane?
Lo storico
Anche, perché, a quanto pare, il sistema in questione va avanti almeno dal 1997, da quando in pratica le Poste sono state trasformate in spa. Negli anni precedenti al 2010 i trasferimenti dello Stato vedevano come beneficiario lo stesso Ipost. Successivamente questo è stato inglobato nell’Inps, l’istituto guidato da Antonio Mastrapasqua, che quindi ne ha ereditato i rapporti e anche i trasferimenti statali. In assenza dei quali, va da sé, il sistema sarebbe letteralmente esploso. Anche perché dagli attuali bilanci Inps si apprende che nel 2013 l’ex Ipost porta in dote la bellezza di 143.726 pensioni, in crescita del 2% rispetto all’anno precedente e con un esborso complessivo di 2 miliardi e 546 milioni di euro. Ma questo non può non far sorgere i dubbi e i rischi connessi a trasferimenti statali che ogni anno valgono la bellezza di 1 miliardo di euro. Un andazzo che, c’è da giurarci, è noto al ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni. Per carità, il problema affonda le radici in periodi in cui né Sarmi né Saccomanni occupavano i ruoli attuali. Ma la situazione rischia di degenerare.
L’Europa ci guarda
Anche perché dalle istituzioni comunitarie nel frattempo non giungono segnali confortanti. Il 29 gennaio del 2011 la Commissione europea avviò un procedimento contro il Regno Unito contestando un pacchetto di aiuti alla Royal Mail, che in pratica avrebbe portato lo Stato a farsi carico di ben 9 miliardi di sterline di deficit accumulato dal colosso postale inglese. La Commissione fece leva sul passato di monopolista di Royal Mail e sul fatto che parte dell’aiuto finanziario pubblico precedentemente ottenuto aveva permesso all’azienda di mantenere una posizione di forza sul mercato proprio grazie a quell’alleggerimento. Insomma, disse la Commissione, il colosso era stato favorito in modo selettivo dallo Stato inglese falsando la concorrenza. La procedura, successivamente, si è chiusa. Ma giusto qualche mese fa il governo britannico ha annunciato la privatizzazione della Royal Mail.