Leonard Cohen è morto. Aveva 82 anni il gigante dei versi in musica. E già, perché questo era Cohen, un poeta oltreché un cantante. E, forse, era ancora più poeta che musicista. Ad annunciarlo, ieri, la casa discografica Sony Music Canada su Facebook: “Con profondo dolore comunichiamo che il leggendario poeta, cantautore ed artista Leonard Cohen è morto”. La rivista Rolling Stone ha rimbalzato subito la notizia. Dopodiché è stato un attimo affinché tutti fossero al corrente che l’autore della storica Hallelujah non c’era più.
Non viene rivelata la causa né il luogo della morte del musicista canadese, una carriera fenomenale di quasi mezzo secolo. L’eminenza grigia in un piccolo pantheon di influenti cantautori degli annni Sessanta e Settanta, Cohen aveva gareggiato con altri grandi della musica cantautoriale, a cominciare da Bob Dylan passando per Paul Simon e Joni Mitchell. Insomma, “sfide” tra grandi del testo in musica.
Uno dei pochi della sua generazione, Cohen aveva continuato ad avere successo negli anni Ottanta e il suo ultimo album, “You Want It Darker“, era uscito a fine ottobre. Cohen cantava anche di religione, politica e guerra: in un’intervista rilasciata nel 2014 a Repubblica, aveva detto: “L’atmosfera in cui siamo immersi passa anche sotto le porte tanto è sottile e velenosa. Viviamo prigionieri di un senso di paura e di sconfitta, minacciati da forze oscure che modificano le nostre vite. Tutti soffriamo, tutti siamo impegnati in una lotta per il rispetto reciproco. Dobbiamo cominciare a riconoscere che il nostro dolore è uguale a quello degli altri, che la nostra battaglia è legittima quanto quella dei nostri nemici. Siamo frutto delle circostanze, liberi e prigionieri in tempi diversi. Quanto alla cifra politica, sono anni che cerco di averne una – che nessuno ha mai decifrato”.
Pur non avendo mai abbandonato l’ebraismo e il rituale di osservare il sabato, il musicista aveva attribuito al buddismo un ruolo nel tenere a bada gli episodi di depressione che lo avevano afflitto fin da ragazzo. Oltre 2.000 cover delle sue canzoni, tra cui, come si sa, la più celebre è senz’altroa Halleluja e poi Suzanne e Bird on a Wire, sono state registrate da artisti come Judy Collins and Tim Hardin e grandi voci del rock, pop, country, rhythm and blues, tra cui U2, Elton John, Sting, Trisha Yearwood e Aretha Franklin.
Tante, peraltro, le canzoni su cui centinaia di critici si sono scervellati per capirne il senso più profondo. Come nel caso di Famous Blue Raincoat, solo apparentemente una canzone d’amore e quasi dai toni smielati. Spesso in Cohen basta immergersi nelle parole che danzano sulla musica per scoprirne il significato vero, senza ragionamenti, senza calcoli, senza logica. Ebbe a dire il gigante in un’altra intervista, questa rilasciata nel 1992 al giornalista e musicista Paul Zollo: “C’è sempre una canzone che ha un significato per qualcuno. Le persone si corteggiano, si sposano, fanno figli, lavano i piatti, tengono duro fino a sera con canzoni che possiamo trovare insignificanti. Ma il loro significato è dato dagli altri. C’è sempre qualcuno che dà significato a una canzone prendendo una donna tra le braccia o passando in piedi la notte. È questo che dà dignità a una canzone. Non sono le canzoni a dare dignità alle attività umane, sono le attività umane a dare dignità alle canzoni”.
Nato nel Quebec, Cohen aveva imparato da ragazzino a suonare la chitarra e formato una piccola band. Leggere Federico Garcia Lorca lo aveva avvicinato alla poesia. Finita l’università a McGill, Cohen si era trasferito nell’isola greca di Idra dove aveva comprato una casa per una manciata di dollari lasciatagli dal padre che era morto quando lui aveva nove anni. Lì aveva pubblicato la sua prime raccolte di poesie, Flowers for Hitler (1964) e i romanzi The Favourite Game (1963) e Beautiful Losers (1966). Una improbabile pop star, Cohen aveva 33 anni quando uscì il suo primo disco nel 1967. “La sua immagine ascetica era in totale controtendenza con gli eccessi dionisaci associati con il rock and roll”, ha scritto il New York Times che cita anche la definizione che gli fu affibbiata di “maestro della disperazione erotica”.