Il 15 gennaio del 2014 in Parlamento veniva presentata una proposta di legge costituzionale per abolire le Regioni. Al loro posto avrebbero dovuto esserci “36 centri propulsori della gestione amministrativa della cosa pubblica”. L’illustrazione della proposta incominciava così: “L’affollamento istituzionale, generato da una distorta e ‘generosa’ interpretazione del principio del pluralismo istituzionale affermato dall’articolo 5 della Costituzione, ha determinato una costante frantumazione delle articolazioni funzionali senza che siano state ricondotte a omogeneità da un coerente disegno unitario del sistema autonomistico”.
Le firme in calce erano dell’attuale viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli e di una giovanissima Giorgia Meloni, ora presidente del Consiglio.
Vade retro
Il 14 dicembre dello stesso anno alla manifestazione di Fratelli d’Italia e An L’Italia soprattutto, organizzata a Roma al teatro Quirino, Meloni spiegava ai giornalisti che “il regionalismo in Italia ha fallito perché ha moltiplicato occasioni di malaffare e ha occupato poltrone e spesa pubblica”. Per l’attuale presidente del Consiglio la sfida consisteva nel dare “più autonomia ai comuni” e “più autorevolezza allo Stato centrale”.
“Su questi temi sfidiamo anche la Lega”, spiegava Meloni. Dieci anni dopo di quel progetto è rimasta la sfida con gli alleati e nient’altro. Le odiate regioni sono la spina dorsale della riforma per l’autonomia differenziata. La presidente del Consiglio in un decennio deve essersi convinta che le occasioni di malaffare e lo sperpero pubblico siano guarite talmente bene da meritarsi ancora già spazio per decidere.
Indietro tutta
Ma sono soprattutto le poltrone a far venire l’acquolina in bocca al partito della presidente del Consiglio. Fratelli d’Italia si apparecchia le regioni italiane per riempirsi lo stomaco. C’è il succulento Veneto in cui il partito di Giorgia ha più che raddoppiato i voti della Lega, c’è la Campania a cui il ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano dedica buona parte delle sue parole e delle sue giornate, c’è la Liguria e così via. Il dibattito politico nella maggioranza sul terzo mandato per i presidenti di regione è la cipria con cui si prova a nascondere l’insaziabile appetito della presidente del Consiglio che sogna la sostituzione politica dei suoi alleati con i suoi uomini. Così la marcia marziale della leader di Fratelli d’Italia continua noncurante delle lamentele.
Ieri il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti – che raccontano terrorizzato dall’idea di doversi reinventare – si è augurato “che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni facciano una riflessione, sono sempre stati un partito favorevole alle preferenze, al consenso, se l’è cercato casa per casa. Oggi questa limitazione non è coerente con la sua storia, come non è coerente con la storia di Forza Italia di Silvio Berlusconi, che in qualche modo ha sempre glorificato come un alfiere della volontà popolare e pura, talvolta con scontri istituzionali abbastanza duri sugli equilibri di potere”.
Pigliatutto
Il veneto Luca Zaia dice di aspettare per vedere “quanta sovranità al Parlamento” ma è Matteo Salvini a Cagliari a tenere aperta la disfida: “Decide liberamente il Parlamento, non c’è nessun problema di maggioranza”, ripete il leader della Lega che precisa come ci siano “altri quattro anni davanti per aiutare gli italiani a lavorare di più e stare bene. Sicuramente – ha detto Salvini – ci sono posizioni diverse, anche all’interno del Pd, ma secondo me è democratico che se si trova un buon sindaco o un buon governatore lo si possa rivotare. Detto questo voterà il parlamento”.
La linea in Fratelli d’Italia è ovviamente quella dettata dalla leader: il terzo mandato non è nel programma, ripetono in coro i maggiorenti del partito. L’ennesima giravolta di Giorgia Meloni è diventata un mantra: anche sulle regionali non c’è discussione. L’occupazione che chiamano egemonia culturale può serenamente avanzare.