Perché salire su un palco, come mi accade per tutti i giorni di questa settimana, al Teatro della Cooperativa di Milano per ridere di mafia? Perché la realtà è tragica e perché la memoria ormai è diventata un rito. Quando abbiamo deciso di preparare lo spettacolo Il ridicolo onore.
Perché salire su un palco, come mi accade per tutti i giorni di questa settimana al Teatro della Cooperativa di Milano, per ridere di mafia?
Falcone e Borsellino 30 anni dopo e le teste di minchia la criminalità organizzata per l’ennesima volta era diventata un ricordo da esporre come un feticcio. In occasione dei trent’anni dalla morte di Falcone e Borsellino abbiamo assistito a commemorazioni cariche di retorica ma mancava un punto fondamentale: com’è possibile commemorare una storia che non è stata raccontata per intero? Com’è possibile commemorare riuscendo a spegnere il desiderio di verità e giustizia?
Noi siamo un Paese strano, al rovescio, e come ci insegnavano i giullari fin dal ‘500 (li abbiamo inventati noi, in Italia, li abbiamo esportati noi nel mondo) non c’è niente di più potente della risata per mostrare che il re è nudo. Con la rista possiamo raccontare quanto sia ridicolo il potere quando ha bisogno di fare il prepotente per governare secondo le regole. La storia delle mafie e dell’antimafia in questo Paese è una storia di omissioni (caratteristica fondante dell’etica mafiosa) ed è una questione di rovesciamenti.
Falcone e Borsellino da vivi furono oggetto di una delegittimazione e di un isolamento continui che accadde non per mano della mafia ma con l’atteggiamento di politici, giornalisti, intellettuali di quell’epoca. Alcuni sono gli stessi che ora li hanno trasformati in miti. È comodo così: i miti si adorano, non si interrogano, non possono parlare.
E così nel trentennale dalla loro morte non ci siamo accorti che Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri (due condannati per mafia che per percorsi diversi avevano incrociato la strada dei due magistrati) hanno avuto un ruolo rilevante nella scelta del candidato sindaco della Palermo di Paolo e Giovanni e poi nelle elezioni regionali siciliane. Noi siamo un Paese già pronto per diventare un canovaccio a disposizione dei giullari. Anche sulla narrazione dei cattivi.
Per decenni abbiamo dipinto Totò Riina come l’uomo che da solo era in grado di tenere sotto scacco una nazione e poi non l’abbiamo ascoltato quando di fronte a un giudice ha detto testualmente “Latitanza? A me non mi ha mai cercato nessuno”.
Poi ci hanno detto che Riina era il braccio ma la mente era Provenzano. Provenzano l’abbiamo visto arrestato in un casale in mezzo alle capre mentre collezionava santini e ascoltava musicassette con la colonna sonora de “il padrino” e quella del cartone animato dei “Puffi”. Sarebbe bastato interessarsi a loro un po’ più a fondo senza stare sulla superficie del giornalismo scandalistico per capire che le menti stanno fuori dalla mafia. Ma non ci siamo interrogati.
Mark Twain scriveva che non dobbiamo avere paura di ciò che non conosciamo ma dobbiamo temere ciò che crediamo vero e invece non lo è
Lo stesso accade in questi giorni con Matteo Messina Denaro. Mark Twain scriveva che non dobbiamo avere paura di ciò che non conosciamo ma dobbiamo temere ciò che crediamo vero e invece non lo è. Mentre ci innamoravamo dei boss mafiosi le inchieste di questi anni hanno raccontato politici, imprenditori e professionisti al servizio della criminalità organizzata.
Mentre guardavamo le fiction sui “cattivi” i presunti buoni hanno nascosto i soldi trasformandoli in case costruite che non hanno bisogno di essere vendute, ipermercati che non hanno abbastanza clienti. Un riciclaggio che cambia la forma delle nostre città. Allora ridere diventa un’arma bianca per dire l’indicibile e per rivendicare un antiracket culturale. Come ci ha insegnato un altro meraviglioso giullare antimafioso: Peppino Impastato. Ci vediamo in teatro.