di Francesco Bonazzi
Né rottamatore né rottamato. Un buon sughero, più che altro, nella miglior tradizione democristiana. Matteo Renzi festeggia lunedì prossimo i primi due anni di governo e ha per noi progetti meravigliosi: restare al potere fino al termine della legislatura (2018) e candidarsi (finalmente) alle elezioni seguenti per inchiavardarsi a Palazzo Chigi fino al 2023. Totale anni da Presidente del Consiglio: sette. Come il mitico Giulio Andreotti, che di esecutivi però ne ha dovuti guidare sette, e poco meno di Alcide De Gasperi (7 anni e 8 mesi al potere). Ma come li ha spesi Renzi questi primi 24 mesi da capo del governo?
PROMESSE – Il 24 febbraio di due anni fa, in quel Senato che poi avrebbe di fatto abolito, Renzi chiede la fiducia promettendo “un cambiamento radicale, immediato e puntuale”. Viene da una cavalcata mediatica costruita attorno alla parola magica “rottamazione” e alla sua giovane età (è nato l’11 gennaio del 1975). Al secondo tentativo ha vinto le primarie del Pd, ma all’atto pratico deve dimostrare di non saper rottamare solo Pierluigi Bersani ed Enrico Letta, per altro non esattamente due squali della politica, ma di saper combattere il Leviatano della burocrazia e delle troppe tasse. E poi rilanciare l’economia riducendo la disoccupazione e ricostituendo quella certezza del diritto che fa passare la voglia di fare impresa e tiene lontano dal nostro Paese i capitali stranieri. Dopo aver visto il Presidente del consiglio all’opera per 24 mesi si può dire che ha fatto alcune cose buone e molte cose deludenti o pessime. Forse il Presidente della Cei, Angelo Bagnasco, non sarà molto d’accordo, ma se c’è una nuova legge che ha semplificato la vita di migliaia di persone di qualsiasi orientamento politico è quella sul cosiddetto divorzio breve (novembre 2014). Con le nuove norme si può ottenere che il matrimonio perda ogni effetto giuridico dopo soli sei mesi dalla separazione, a patto che non vi siano contenziosi tra marito e moglie. Naturalmente, lo scopo dichiarato della riforma non è quello di ridurre spese e sofferenze dei coniugi (e dei figli), ma quello di diminuire il carico di lavoro dei tribunali. In fondo va bene lo stesso. La medesima ratio muove l’intera riforma del processo civile voluta dal ministro Andrea Orlando, frutto di un’estenuante mediazione con tutto e tutti, ma che comunque va nel senso giusto, ovvero quello della semplificazione e della deflazione delle cause.
Senza dubbio positiva anche la strombazzatissima riduzione di 80 euro che tanto peso ha avuto su quel 43% conquistato dal Pd renziano alle Europee del 2014. E’ molto dubbio che una cifra così ridotta abbia rilanciato in qualche modo i consumi, come andava predicando Renzi, ma magari quei soldi sono serviti a pagare bollette arretrate, multe e piccole cartelle di Equitalia. Soprattutto, ridurre finalmente l’Irpef, almeno ai redditi mediobassi, è stato un bel segnale.
Sicuramente da applaudire anche la decisione di affidare la guida dei musei a manager anche stranieri. E poi, anche se qui siamo carenti sull’attuazione, bisogna ammettere che i princìpi della riforma Madia della Pubblica amministrazione, improntata alla semplificazione, sono finalmente da Stato non borbonico. E per tornare alla rottamazione, alzi la mano chi rimpiange Massimo D’Alema e una certa nomenclatura di sinistra. Sulla stessa direttrice, la riforma del Senato è sicuramente una svolta positiva, vista l’agonia paralizzante del bicameralismo. Anche se forse, con maggior coraggio, poteva essere direttamente abolito.
ABBASSO RENZI! – Fin dai tempi del governo Dini (1995) i politici più realisti hanno cercato di spiegare agli italiani che gran parte di essi sarebbe andata in pensione con assegni anche dimezzati rispetto all’ultimo stipendio. E la situazione si è ovviamente aggravata anche per chi non fa che passare da un lavoro precario all’altro. Ebbene, dopo vent’anni di convegni e proclami, il governo guidato dal nuovista di Rignano sull’Arno ha veduto bene, con la Legge di stabilità del 2015, di aumentare le tasse sul Tfr e a chi ha investito in fondi pensione. Decisamente triste anche la performance europea di Palazzo Chigi. Al momento di farsi dare la fiducia dal Parlamento, Renzi promise “un pacchetto di riforme che consideri il semestre europeo come la principale opportunità”. Un turno di presidenza, quello italiano, che definire impalpabile è generoso. E tra le grandi occasioni perse c’è stata quella di ottenere nuove regole sui migranti, regole che oggi ci servirebbero tanto.
Sul fronte delle riforme che interessano solo al ceto politico, Renzi ha investito grandi energie sul cambiamento della legge elettorale. Il problema è che l’Italicum non piace quasi a nessuno, è un pasticcio mai visto a rischio incostituzionalità ed è assai probabile che lo stesso segretario del Pd finirà per rimetterci mano.
A TAPPETO – Che cosa facevano i politici della Prima repubblica e i loro micidiali governi di coalizione? Occupavano tutte le poltrone possibili e immaginabili, con una scarsissima attenzione per i curriculum dei prescelti e privilegiando quasi sempre la fedeltà di partito o di corrente, se non addirittura la capacità di stornare fondi neri. Nella primavera del 2014, Renzi ha cambiato i cda delle varie Eni, Enel, Terna e Poste, compiendo essenzialmente due operazioni. Una di pura immagine, con la scelta di donne in posizioni non operative, come Emma Marcegaglia alla presidenza di Eni, Luisa Todini alle Poste, Patrizia Grieco all’Enel e Catia Bastioli in Terna. La seconda, di mera occupazione militare, con una serie di personaggi tutti nati a Firenze e dintorni, meglio se frequentatori e finanziatori delle sue Leopolde. Qualche esempio in ordine sparso: Diva Moriani nel cda Eni, Alberto Bianchi in quello dell’Enel, Matteo Del Fante ad di Terna.
E non sono mancate le nomine di illustri “trombati”, come l’alfaniano Alfredo Antoniozzi (ex deputato europeo), piazzato all’Enel, o di Massimo Ferrarese, anche lui di Ncd, alla presidenza dell’Invimit, la società del Tesoro che gestisce i beni immobiliari e i risparmi dello Stato. Il tutto con tanti saluti alla meritocrazia e alla fine del manuale Cencelli sbandierate dal Grande Rottamatore. In questo senso, anche la scelta di antichi lobbisti come Daniela Carosio e Giuliano Frosini per il consiglio di amministrazione delle Fs lascia un po’ stupiti.
E infine la Rai, attrazione irresistibile per ogni potente nuovo e seminuovo. Anche qui il Presidente del Consiglio aveva annunciato una netta inversione di tendenza e anche lui, come tanti esperti tribuni, aveva promesso: “Porteremo i partiti fuori dalla Rai”. Come no. Il nuovo cda, l’ultimo nominato con la micidiale legge Gasparri, è stato comunque scelto con il bilancino e i singoli consiglieri sono tutti “di area”, come si usa dire con un eufemismo. C’è di buono che il nuovo dg forte, previsto dalla legge, il renzianissimo Antonio Campo Dall’Orto, resterà comunque solo tre anni, come i manager esterni di sua nomina. Renzi a occhio ce lo teniamo di più.