di Lapo Mazzei
E se il vero compromesso storico fosse quello fra Confindustria e sindacati e non quello fra destra e sinistra? Sarebbe davvero un fatto epocale o un frutto dei tempi? Un segno del punto di non ritorno raggiunto dal nostro Paese o la prova tangibile dello scollamento fra l’Italia reale e palazzi della politica? Probabilmente un po’ tutte queste cose, quale naturale risultante di un fenomeno carsico che ora vuole emergere con tutta la sua forza. Imprese e sindacati, padroni e operai, hanno lo stesso nemico: lo Stato. Ecco, arrivati a questo punto ci aspettiamo davvero che la Camusso e Squinzi si diano la mano e scendano in piazza insieme, uscendo con forza alle rispettive a base di concerti del Primo Maggio o dei minuti di silenzio all’inizio dei convegni. Saltate le linea del Piave ora, prima che sia troppo tardi. Giusto qualche giorno fa il numero uno di viale dell’Astronomia, Giorgio Squinzi, ha lanciato un pressante allarme alla politica: serve un governo, fate presto. Nello stesso giorno la base di Confindustria, forse con minor enfasi, ma con una grande efficacia, ha lanciato un altro appello. “Si, è vero: dalla base c’è chi ci chiede di andare oltre i convegni, molti imprenditori sono convinti che solo se vai in piazza e gridi qualcuno ti ascolta”. A dirlo non è un rivoluzionario arrivato da Cuba, ma il leader della Piccola industria di Confindustria, Vincenzo Boccia, che l’altro giorno ha raccontato “‘il nervosismo” dei suoi associati. Rabbia, sconforto: sono le parole che ricorrono ascoltando la voce degli imprenditori da Nord a Sud. In questo clima, “non escludiamo che si possa arrivare anche a manifestazioni di piazza”, una iperbole per il mondo degli industriali, dice Boccia, che preannuncia: la convention della Piccola Industria a Torino (che si è conclusa domenica, ndr) “è solo un punto di partenza”.
Piccolo, simbolico, con quel minuto di silenzio per le imprese che chiudono. Serve fare di più. Occorre che Confindustria alzi il tiro, visto che i sindacati sono schiacciati fra la logica del “vorrei, ma non posso”, non potendo mettere in difficoltà il centrosinistra. Anche loro, Cgil, Csl e Uil, dovrebbero osare e volare alto. Sopra ai partiti e alle logiche di appartenenza. In questo modo si aprirebbe davvero una nuova fase, “un percorso di denuncia e proposte” come spiega Boccia. “E sulla base delle risposte che avremo valuteremo fin dove arrivare”, sostiene il leader dei “piccoli” di Confindustria. L’allarme in due dati: “‘Nel 2012 hanno chiuso 41 imprese al giorno”, spiega il rappresentante degli imprenditori, “da inizio crisi abbiamo perso un milione e mezzo di posti di lavoro”. “Siamo tutti infuriati, le imprese non possono morire in silenzio: aspettiamoci qualcosa”, avverte da Bologna Massimo Cavazza, industriale dell’elettronica. “C’è rabbia incredibile”, un “forte malessere che può sfociare in qualche protesta anche eclatante”. Le imprese guardano al vuoto del dopo-elezioni, si rivolgono ai politici: “Eletti da noi, curano solo i loro interessi. Non si fa nulla mentre c’è da affrontare una situazione da stato di guerra. Perché questo è uno stato di guerra. La sensazione delle imprese è molto chiara: “adesso o mai in più”. In c’è la sopravvivenza, come ammettono un po’ tutti, “siamo arrivati in fondo”. E se la base scalpita, i big provano a registrare il passo. Fulvio Conti, vicepresidente di Confindustria per il Centro studi, e amministratore delegato di Enel, rilancia con forza “l’appello per un patto per l’Italia, che da oggi veda insieme imprese e sindacati, per presentare insieme una proposta al governo”. Il punto di riferimento, dice, può essere il “progetto per l’Italia”, il programma economico che Confindustria ha presentato alla politica lo scorso gennaio. Una “buona ricetta”, dice Conti, per la quale servono “due cuochi esperti e solidali”. Da un lato “le parti sociali, imprese e sindacati”, dall’altro “un governo stabile che ascolti e possa attuare questa ricetta”. Conti auspica “misure per dare slancio all’economia” fin dai “primi cento giorni” del prossimo governo, a partire dai tagli ai costi per le imprese (come sull’Irap sul costo del lavoro, o la detassazione dei salari di produttività) e da interventi per sbloccare la crisi di liquidità (affrontando nodi come il credit crunch, e i pagamenti dei debiti della P.a). E se gli imprenditori hanno deciso di saltare il fosso, i sindacati, la Cgil in particolare, è sulla riva. “Basta considerare lo Stato un diavolo: ci sono risposte che devono venire necessariamente dallo Stato e dalle istituzioni”, dice il segretario della Cgil, “pensiamo a un tema come la povertà, la necessità di servizi, i tanti che perdono il reddito. Va qualificata la pubblica amministrazione e valorizzato il lavoro di tanti che ogni giorno hanno davanti le richieste di cittadini, anche con la difficoltà di dare risposte”. Ecco, nell’attesa di tutto ciò, riannodi il filo del ragionamento con Confindustria e inviti Squinzi al concertone del Primo Maggio, anche solo per vedere l’effetto che fa.
Magari potrebbe essere un successone. Nel frattempo l’unica voce che si leva dal Palazzo, quella dei saggi è solo un coretto di periferia, è quella del ministro Corrado Passera. “Dobbiamo capire fino in fondo quello che abbiamo fatto” dice parlando dei soldi che lo Stato renderà alle imprese, “sicuramente ci possono essere dei miglioramenti, ma nella versione ultima che è stata approvata, c’è molto della soluzione che serviva”. Un tentativo, quello del titolare dello Sviluppo economico, lodevole ma non esaustivo. Del resto nel suo intervento al convegno della Piccola Industria di Confindustria in corso al Lingotto, rispondendo al presidente, Vincenzo Boccia, che lo ha invitato ad andare fino in fondo con gli arretrati della pubblica amministrazione, Passera non poteva fare di più. “Quaranta miliardi messi a disposizione”, ha aggiunto, “sono comunque una cifra molto importante perché copre già una quota rilevante nei debiti accumulati negli ultimi 10 anni e messi sotto il tappeto”. Ecco, è esattamente per questro che occorre il compromesso storico fra Confindustria e sindacati.