di Carmine Gazzanni
Il suo prossimo giornale, in edicola da fine febbraio, si chiamerà Il dubbio. Ma quello vero, di dubbio, è quando prenderanno lo stipendio – anzi, gli stipendi – i giornalisti de Il Garantista. Perché il quotidiano fondato da Piero Sansonetti non naviga, ormai da mesi, in acque floride. E ora arriva l’ennesima beffa: dei 630 mila euro di fondi pubblici ricevuti dal giornale, nessuno finirà ai giornalisti che pure avanzano ben 12 stipendi (più 2 tredicesime).
STORIA DI UN DISASTRO – Ma facciamo un passo indietro per capire le tappe del disastro. Il 18 giugno 2014 arriva nelle edicole di tutta Italia il nuovo quotidiano, dopo che lo stesso Sansonetti aveva siglato l’accordo per acquistare la testata Cronache di Liberal dell’ex comunista e oggi deputato nel gruppo Per l’Italia, Ferdinando Adornato. “È stata un’operazione vantaggiosa – diceva allora il giornalista – costata tra gli 80 e i 150 mila euro”. Non male per un quotidiano che avrebbe potuto godere dei fondi pubblici. E così è stato: prima di Natale, infatti, il dipartimento per l’Editoria, guidato dal renzianissimo Luca Lotti, ha assegnato i fondi pubblici ai vari giornali titolati. Ebbene, al Garantista sono andati solo 630 mila euro. Ben pochi rispetto a quelli sperati e all’ammontare di debiti che, nel frattempo, l’editore ha accumulato. Ma sufficienti per pagare gli arretrati ai giornalisti. Peccato, però, che quei soldi nessuno li abbia mai visti. Sono gli inizi del 2015 quando Andrea Cuzzocrea, ex amministratore delegato della cooperativa dei giornalisti indipendenti prima dell’avvento del nuovo ad, Francesco Armentano, propone a tutti i lavoratori la cosiddetta “cessione del credito”. Visto infatti che non riesce a pagare gli stipendi, propone e cura un atto notarile col quale viene ceduto il contributo pubblico a giornalisti e fornitori. Un impegno mantenuto anche dallo stesso Armentano. Prima, però, del patatrac. “Solo qualche giorno fa – fa sapere il cdr – Francesco Armentano ci fa sapere che i soldi non ci sono. Ma solo per noi. Com’è possibile? Eppure il contributo erogato dal fondo dell’editoria è di 650mila euro. Una cifra più che sufficiente a pagare la nostra cessione del credito”. Sufficiente sì, se non fosse che lo stampatore Umberto De Rose ha intascato la bellezza di 507mila euro. La quasi totalità.
IL SOLITO DE ROSE – I soldi, insomma, sono finiti quasi interamente al “solito” De Rose. Già, perché – come denunciato anche dalla deputata M5S Dalila Nesci che a riguardo ha annunciato un’interrogazione parlamentare – parliamo dello stesso stampatore del fu L’Ora della Calabria, quotidiano chiuso dopo che lo stesso De Rose decise di non mandare in stampa il giornale. Rimarrà negli annali la telefonata di De Rose all’editore Alfredo Citrigno per chiedergli di non pubblicare la notizia sull’inchiesta nei confronti del figlio del senatore Antonio Gentile. Lo stampatore, in una seconda telefonata registrata dal direttore Luciano Regolo, fece esplicito riferimento a possibili ritorsioni da parte della famiglia Gentile (“il cinghiale quando è ferito ammazza tutti”). Una volta capito che la notizia sarebbe stata pubblicata – questa la tesi nel processo contro De Rose, accusato di tentata violenza privata – avrebbe ricorso al “guasto” della rotativa per impedire l’uscita del quotidiano. Ma, d’altronde, De Rose è uno di quei volti noti dell’ambiente politico calabrese. Da sempre vicino allo stesso Gentile e a Giuseppe Scopelliti, è stato per anni presidente di Fincalabra, la finanziaria regionale. Non solo. Come denunciato ancora e più volte dalla Nesci, tramite una legge regionale la “De Rose Servizi e Forniture srl” nel 2000 beneficiò dalla Regione Calabria di circa 6 milioni di euro. Soldi pubblici concessi a patto che l’azienda avesse assunto giovani calabresi. Assunzioni, però, mai fatte. E ciononostante i soldi sono rimasti, placidamente, nelle casse del buon De Rose.
CALABRIA AL COLLASSO – Insomma, l’ultima puntata del Garantista sorride solo allo stampatore, ma non ai giornalisti, cornuti e mazziati. Ma, d’altronde, non è la prima volta che in Calabria la stampa si piega agli interessi dei potenti, indifferente invece ai diritti dei lavoratori. È stata ancora Dalila Nesci a portare avanti, in una Calabria martoriata da una fitta rete clientelare di potentati e politicanti, la battaglia in difesa della libertà d’informazione. Clamoroso quanto accaduto, solo pochi mesi fa, alla rete locale Esperia Tv, dove due giornaliste vennero cacciate senza alcun preavviso e in modo illegittimo. Tramite raccomandata, infatti, arrivava alle giornaliste Antonietta Marazziti e Angela Bentivoglio una “comunicazione di licenziamento per giustificato motivo”. Peccato, però, che il “giustificato motivo” fosse solo apparente dato che nessuna comunicazione preventiva era stata mai inviata al sindacato dei giornalisti. Clamoroso, poi, che l’emittente abbia licenziato le due giornaliste nientepopodimenoche dopo una sentenza del Tribunale di Crotone che si era pronunciato su un precedente illegittimo licenziamento (di Rossana Caccavo) della stessa Esperia Tv, con tanto di condanna e reintegro della giornalista sul posto di lavoro. Insomma, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ma, d’altronde, non c’è niente da fare se l’editore si chiama Massimo Marrelli, grande patron della sanità privata calabrese, e marito di Antonella Stasi, presidente della Regione Calabria, dopo la caduta di Giuseppe Scopelliti e prima dell’arrivo di Mario Oliverio.
Tutto sembra lecito, dunque, nella stampa calabrese (e a danno della stessa). Fino a toccare il fondo, com’è capitato ai giornalisti de La Provincia di Cosenza, cui è stato impedito di entrare in redazione. In che modo? Semplice: da un giorno all’altro (dal 31 luglio al primo agosto, per la precisione), ha cambiato sede senza che venisse comunicato nulla. Un modo gentile per far fuori – senza il minimo preavviso anche in questo caso – i giornalisti, peraltro senza contratto. Già, perché quella mattina l’editore avrebbe dovuto incontrare i redattori, accompagnati dal rappresentante sindacale. Bella sorpresa per i poveri sventurati quando si sono ritrovati in un ufficio completamente smantellato. Di fretta e furia.
Tw: @CarmineGazzanni