Niente mezzi super tecnologi si è arrivati a una nuova svolta sull’omicidio di Bruno Caccia, procuratore capo di Torino ucciso nel 1983. L’unico giudice assassinato dalla ‘ndrangheta nel nord Italia. Uno dei presunti killer, infatti, è stato arrestato. Si tratta di Rocco Schirripa, 62 anni, di origini calabresi, che lavora come panettiere in piazza Campanella, nel popolare quartiere Parella di Torino. Il suo nome era già emerso ma non era mai stato indagato. La nuova inchiesta, aperta della procura di Milano dopo gli esposti della famiglia Caccia, è stata coordinata direttamente dal numero uno della Dda Ilda Boccassini (che si è detta “emozionata”) e condotte dal pm Marcello Tatangelo.
LO STRATAGEMMA – Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Schirripa ha dato il “colpo di grazia” al magistrato. Domenico Belfiore, arrestato nel ’93 e condannato all’ergastolo per il delitto e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute, e il suo “soldato”, hanno aspettato il magistrato a bordo di un’auto, appostati vicino alla sua casa. Belfiore, esponente di spicco della ‘ndrangheta in Piemonte, avrebbe sparato a Caccia dalla vettura, ferendolo. A quel punto Schirripa sarebbe sceso dall’auto, per finire il procuratore con un colpo alla testa. Ed è stato proprio quando Belfiore è uscito dal carcere che gli inquirenti hanno potuto incastrarlo. Gli agenti, infatti, gli hanno inviato una lettera anonima che conteneva la fotocopia di un articolo de La Stampa di 22 anni fa, con la notizia del suo arresto. Sul retro, gli investigatori hanno scritto il nome “Rocco Schirripa” per sondare la reazione su uno dei sospetti che, all’epoca, era un “soldato” della famiglia Belfiore. Reazioni che non si sono fatte attendere. È iniziato un giro di telefonate nelle quali Belfiore, il cognato Placido Barresi e lo stesso Schirripa si chiedevano chi avesse fatto la “soffiata”. Preoccupazioni, dubbi e ragionamenti ascoltati in diretta dagli investigatori.
GLI ULTERIORI RISVOLTI – Quando venne ucciso, Caccia stava indagando sull’infiltrazione della malavita organizzata nei casinò del nord Italia, utilizzati come “lavanderie” del denaro sporco proveniente dai sequestri di persona. Ed è proprio da qui, dalle ultime indagini seguite dal magistrato, che bisogna ripartire secondo la famiglia per decifrare uno degli omicidi più oscuri della storia italiana, per cui per anni si è pensato anche che dietro ci fosse il terrorismo politico (si è parlato di Nar e Br). Ma non è finita qui. Perché secondo i legali della famiglia, manca ancora un altro tassello, ovvero il mandante, che potrebbe essere Rosario Pio Cattafi, boss siciliano e avvocato indicato dai pentiti come anello di congiunzione tra Cosa nostra, servizi segreti ed estrema destra, oggi al 41 bis a l’Aquila, e teste nel processo trattativa. Nella sua casa venne trovato addirittura il falso volantino di rivendicazione delle Brigate Rosse.