di Astrid Nausicaa Maragò
Dei problemi e delle contraddizioni legate alla legge 194/78 che regola la pratica dell’aborto nel nostro paese si è scritto e detto di tutto, dai tentativi anacronistici e maldestri di abolizione fino agli equivoci di interpretazione. Quello che ancora non era emerso in tutta la sua evidenza è però che la mancata applicazione della legge 194 comporta per il cittadino delle spese assurde e ingiustificabili.
Costi superflui
Per far fronte alle richieste di interruzione volontaria di gravidanza, infatti, molte aziende ospedaliere sono oggi costrette a servirsi di personale esterno. Si tratta di medici con contratti di consulenza, o retribuiti a gettone, che agli ospedali, molti dei quali con bilanci già in rosso o addirittura a rischio chiusura, comportano costi superflui. Questi compensi si vanno infatti a sommare alle retribuzioni del personale dipendente che però, in forza dell’obiezione di coscienza, rifiuta di effettuare questo genere di prestazioni.
I costi lievitano poi ulteriormente quando ad essere chiamati per questi interventi sono addirittura medici provenienti da altre regioni. In tempi di spending review tutto questo sembra un paradosso, soprattutto se si pensa che i costi delle procedure chirurgiche potrebbero essere abbattuti optando per l’aborto farmacologico, che funzionerebbe anche in day hospital. Ogni procedura chirurgica di “ivg” costa circa 1000, 1200 euro di rimborso secondo il sistema D.R.G., mentre privilegiando l’uso della pillola RU486 questi costi sarebbero tagliati in modo significativo. Sfortunatamente questo metodo è attualmente utilizzato solo in poche regioni, come Emilia Romagna e Umbria.
I dati ufficiali
I medici disposti a praticare le interruzioni di gravidanza secondo quanto previsto dalla legge 194/78 sono pochissimi, in tutte le regioni d’Italia. Per diversi motivi la maggior parte dei ginecologi ospedalieri si dichiarano infatti obiettori di coscienza, e col tempo il meccanismo messo a punto dalla legge è andato letteralmente in tilt.
I numeri raccontano un quadro drammatico: il rapporto annuale del Ministero della Salute parla di una stabilizzazione generale dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi e gli anestesisti, che ha seguito un notevole aumento negli ultimi anni. A livello nazionale si è passati dal 58.7% del 2005 al 69.3 nel 2010 per quanto riguarda i ginecologi, mentre per gli anestesisti, negli stessi anni, la quota è salita dal 45.7% al 50.8%. Un ulteriore incremento ha interessato le dichiarazioni del personale non medico, che secondo gli ultimi dati disponibili si dichiara obiettore per il 44.7%. La situazione si fa più complicata nelle regioni del sud Italia, dove il personale obiettore supera persino l’80%: 85.7% in Molise, 85.2% in Basilicata, 83.9% in Campania, 80.6% in Sicilia.
Lo studio dei ginecologi per la 194
Ma questi numeri ufficiali risultano smentiti da uno studio presentato dalla Laiga, la Libera associazione italiana dei ginecologi per l’applicazione della legge 194: la ricerca racconta una realtà ancora più complessa. Basti pensare che nel Lazio, ad esempio, il 91,3% dei ginecologi ospedalieri è obiettore. In 10 strutture pubbliche su 31, inoltre, esclusi gli ospedali religiosi e le cliniche accreditate, non si eseguono interruzioni di gravidanza. E tra queste, 2 sono strutture universitarie (il Policlinico di Tor Vergata e il S. Andrea), che vengono quindi meno anche al compito di formare i nuovi ginecologi, come sancito dall’articolo 15 della legge 194.
Resta poi il problema degli interventi di interruzione di gravidanza oltre il terzo mese, vale a dire i cosiddetti “aborti terapeutici” effettuati per ragioni cliniche. Per un intervento del genere è necessaria la presenza di un medico strutturato dipendente dall’azienda ospedaliera, e la contemporanea disponibilità di una equipe chirurgica completa, una sala operatoria, e così via. Effettuare una pratica del genere in queste condizioni diventa quasi impossibile e le donne sono costrette a spostarsi dalla provincia alla capitale o magari ad espatriare.
Quindi nel nostro paese una donna che si trova nella condizione di dover abortire, oltre a dover sopportare il trauma che questa dura decisione comporta, è costretta ad affrontare una vera e propria odissea per trovare un posto e un medico disposto a praticare l’interruzione di gravidanza. Impresa che viene resa ancora più ardua dall’assenza di un registro ufficiale dei medici che effettuano aborti.
Perché tutti questi obiettori?
E’ un circolo vizioso. I ginecologi per il rispetto della 194 sottolineano che il numero di medici disposti a praticare le interruzioni è andato progressivamente riducendosi anche a causa delle pressioni e del mobbing che sono costretti a subire all’interno delle aziende ospedaliere. Per non parlare poi del sovraccarico di lavoro cui vanno incontro, e quindi dei problemi di reperibilità e di carriera. Molti sono obiettori per assecondare ragioni di coscienza, altri lo sono per comodità.
Ma nei fatti, rendere particolarmente oneroso l’esercizio di un diritto equivale a non garantirlo.
Per porre quindi un freno a questa emergenza e ridurre al minimo il rischio del ricorso alla pratica degli aborti clandestini sarebbe necessario adottare forme di mobilità del personale e di reclutamento differenziato, come già suggerito in una decisione del Tar della Regione Puglia.
L’obiettivo deve essere quello di garantire un equilibrio sostenibile tra il numero degli obiettori e dei non obiettori in servizio nelle strutture pubbliche. Ma nonostante le richieste, le istituzioni non hanno ancora provveduto.
Negare l’assistenza dopo un aborto è reato
Con la sentenza n. 14979/2013 la Corte di Cassazione ha stabilito che anche se un medico si dichiara obiettore di coscienza non può comunque rifiutarsi di prestare cure a una paziente che si sia sottoposta ad aborto volontario in ospedale. Ha confermato così la condanna ad una dottoressa di un presidio ospedaliero in provincia di Pordenone: un anno di carcere per omissione di atti d’ufficio, e la pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione medica.
La dottoressa era di guardia la sera in cui la paziente ha abortito e, nonostante le ripetute richieste dell’ostetrica che temeva un’emorragia, si era comunque rifiutata di visitare la donna. A nulla sono serviti i richiami da parte del primario e del direttore sanitario che non erano di turno quella sera.
Nonostante le ripetute intimazioni dei superiori, la dottoressa non ha voluto sentire ragioni e non ha prestato alla paziente le cure necessarie. Alla fine, il primario è dovuto correre in ospedale per intervenire d’urgenza.
Nel ricorso contro la condanna della Corte D’Appello di Trieste intervenuta nel dicembre scorso, la difesa della dottoressa si era basata su un’interpretazione estensiva della legge 194/78. Secondo l’articolo 9 in particolare, il medico che si dichiara obiettore di coscienza è esonerato dall’intervenire durante tutte le fasi della procedura di interruzione volontaria di gravidanza, dall’espulsione del feto fino all’espulsione della placenta.
Ma la sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito invece che la legge 194/78 esclude che l’obiezione possa coprire anche l’assistenza antecedente e conseguente all’intervento. Il medico obiettore ha il diritto di rifiutare di determinare materialmente l’aborto ma non può omettere di prestare assistenza prima e dopo l’intervento di interruzione di gravidanza. L’esercizio legittimo del diritto all’obiezione di coscienza non esonera quindi il medico del tutto. E il suo diritto lascia il posto al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure necessarie a tutelare la propria vita e la propria salute. Nel caso specifico, quindi, rifiutando il suo intervento, la dottoressa ha commesso il reato previsto dall’articolo 328 del codice penale, perché ha di fatto “rifiutato un atto sanitario, peraltro richiesto con insistenza da personale infermieristico e medico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente”.