di Stefano Sansonetti
Chissà, magari è soltanto una “fortunata” coincidenza. Il fatto è che con la prima emissione obbligazionaria di mamma Rai, annunciata nei giorni scorsi, i futuri vertici di viale Mazzini “rischiano” di trovarsi in mano davvero un bel regalo. L’operazione, infatti, sembra proprio in grado di escludere l’azienda televisiva dall’applicazione dell’ormai famoso tetto di 240 mila euro agli stipendi pubblici. Limite che il presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha spesso esibito come uno dei risultati messi in cassaforte dal suo esecutivo. Peccato che tra norme succedutesi nel tempo, decreti ministeriali, cavilli e interpretazioni varie l’operazione abbia lasciato dietro di sé un bel po’ di eccezioni. Perché con il lancio del suo primo bond la Rai sfuggirebbe al limite?
IL PUNTO
Semplice, perché la combinazione di tutte le norme di settore, dal decreto legge 201 del 2011 (governo Monti) al decreto legge 69 del 2013 (governo Letta), per finire al decreto legge 66 del 2014 (governo Letta), stabilisce che dal tetto sono escluse le società quotate in borsa e le società non quotate che però “emettono titoli negoziati su mercati regolamentati”. Ed ecco l’espressione che fa proprio al caso della Rai, secondo i cui piani sarà lanciata un’emissione obbligazionaria da 350 milioni di euro con titoli negoziati a Dublino. Il tutto con l’obiettivo di sostituire l’attuale debito bancario a condizioni più vantaggiose. A parte la scelta di quotare i bond su un mercato estero, dettata da condizioni normative evidentemente più favorevoli rispetto a quelle italiane, rimane il fatto che l’operazione inquadra la Rai in quella categoria di società che sono sottratte all’applicazione del tetto stipendiale. Gruppo nel quale ci sono pure Ferrovie dello Stato, Poste e Cassa Depositi e Prestiti. Insomma, mentre l’attuale dg della Rai, Luigi Gubitosi, dopo essere partito da uno stipendio di 650 mila euro ha dovuto adeguarsi al limite dei 240 mila, i suoi successori ne saranno esenti. Solo una coincidenza? Difficile credere che la risposta possa essere affermativa.
GLI SVILUPPI
E forse in ballo potrebbe esserci anche la successione all’attuale dg, pratica che a questo punto potrebbe esser resa più “fluida” dalla prospettiva di uno stipendio più alto. Altro discorso è capire quanto potrà prendere il prossimo capo di viale Mazzini, senza dimenticare che è stata appena approvata la riforma dell’azienda fortemente voluta dallo stesso Renzi. Qui in realtà viene in aiuto un comunicato diffuso il 28 marzo del 2014 dal ministero dell’economia guidato Pier Carlo Padoan. Il quale, richiamando quanto previsto dal decreto Fare del governo Letta (dl 69 del 201), ha ricordato che per le società non quotate che emettono titoli c’è l’obbligo di diminuire gli emolumenti del 25%. Ora, all’epoca del decreto Fare gli amministratori delegati di Fs, Cdp e Poste avevano stipendi mediamente superiori a un milione di euro. Qualcuno già all’epoca anticipò il taglio del 25%, ma è chiaro che il risultato finale è un compenso abbondantemente superiore ai 240 mila euro.
Twitter: @SSansonetti