di Eduardo Meligrana
Dalle aule parlamentari ai paradisi fiscali. È il tragitto di 4,75 milioni di euro diretti alle isole Barbados, Bahamas, Cayman, paesi offshore, secondo Ocse.
La Legge di stabilità 2013, all’articolo 171, assegna la non trascurabile cifra al “Fondo speciale per lo sviluppo della Banca per lo sviluppo dei Caraibi”.
Un doppio sviluppo niente male per la Caribbean Development Bank (CDB), maggiore istituzione finanziaria dei Caraibi con sede a Wildey, St. Michael e nell’isole Barbados.
Solidarietà mascherata
Nel portfolio, la CDB può “vantare” anche altri offshore che ne sono fondatori e al contempo beneficiari dei programmi di sviluppo. Alcuni figurano nella “lista nera”, altri in quella “grigia”: Saint Lucia, Isole Vergini Britanniche, Saint Vincent e Grenadine, St. Kitts e Nevis e Montserrat. Un paradosso evidente, quando in Italia si combattono evasione ed elusione.
La causale dei fondi parla, poi, di aiuti alle aree più povere del mondo, di cooperazione internazionale. Una solidarietà, in realtà, non esente da interessi. Una sorta di diplomazia finanziaria, che fa da apripista alle aziende italiane.
In un documento, è lo stesso Ministero del Tesoro a chiarire la dinamica dei rapporti: “il principale aspetto da considerare è quello dei contratti assegnati alle imprese italiane a fronte di forniture di beni e servizi per progetti o programmi di sviluppo nei paesi in via di sviluppo”. Un do ut des, insomma.
La storia della banca
Ma cos’è la Caribbean Development Bank?
Nasce in Giamaica nel 1968, sotto l’egida del Regno Unito e del Canada, “con lo scopo di contribuire alla crescita economica dei paesi caraibici e di promuovere tra loro cooperazione e integrazione economica”.
In pochi anni, la quasi totalità dei paesi insulari vanno a completarne la struttura. Anche gli Stati più importati del Centro America che affacciano sul mar dei Caraibi cominciano a farne parte, mentre, tra i paesi industrializzati, ci sono Italia, Germania e Francia. Quest’ultima, però, non esita a far le valigie nel 2000.
L’Italia contribuisce dal 1988, da quando, cioè, ha sottoscritto 6.235 azioni per 37.608 milioni di dollari, acquisendo una quota azionaria del 5,99 per cento. Dei capitali italiani 8.234 milioni di dollari vengono interamente versati, mentre 29.374 milioni di dollari sono a titolo di garanzia (a chiamata).
Il ruolo del nostro Paese
Nel tempo, il ruolo italiano non si ferma. L’Italia partecipa alle ricorrenti ricostituzioni dei “Fondi speciali” come agli aumenti di capitale della CDB (per la quinta ricostituzione abbiamo trasferito, 3.5 milioni di euro e, con la legge 382/1991, l’Italia aderisce al quarto aumento di capitale con 400 mila dollari).
Nonostante siano laute le contribuzioni, lo stesso Tesoro giudica “scarsi” i risultati: “si è registrato un crescente interesse delle imprese italiane alle gare internazionali di aggiudicazione dei progetti finanziati dalla Banca. Tuttavia i risultati sono scarsi e il Tesoro sta cercando di diffondere meglio l’attività della CDB”. Tesi confermata dalla relazione al Parlamento del Ministro degli Esteri che nel 2010 scrive: “solo sporadicamente gare internazionali per progetti finanziati della CDB vengono aggiudicate all’Italia”.
Nonostante si tratti di paradisi fiscali e perfino il consuntivo sia magro, da un quarto di secolo continua il money transfer. Dal purgatorio dei conti italiani ai paradisi, fiscali, però.