di Gaetano Pedullà
Giovedì era il candidato premier, poi non è apparso neppure alla “balconata” del Quirinale per spiegare il suo in fin dei conti coerente no, no, no al governissimo. Lasciata la scena a Enrico Letta, Pier Luigi Bersani ha portato il suo partito da vincitore (seppur al fotofinish) delle elezioni a prigioniero sull’Aventino. Il segretario del Pd ha fatto i suoi conti: le elezioni sono inevitabili e piuttosto che tirare a campare qualche mese in coalizione con l’impresentabile (e ineleggibile, inaffidabile, ecc. ecc.) Berlusconi, meglio mandare subito tutto a monte. Dire sì al Cavaliere sarebbe un suicidio elettorale. Tanto quanto farsi da parte e lasciare strada al rottamatore Renzi. Per la premiata ditta D’Alema, Veltroni & c. adesso sì che è finita un’epoca. A Grillo il merito di aver dato il colpo mortale a un sistema che era sopravvissuto a tutto, dalla caduta del Muro di Berlino a Tangentopoli. E merito anche a Berlusconi, che arrivando a offrire il suo appoggio al segretario Pd ha aperto una resa dei conti di cui presto sentirete molto parlare. La strada per il governo adesso si fa più impervia e in salita. Giorgio Napolitano ha deciso di passare un’altra notte insonne, ma lo spazio per costruire un esecutivo non c’è. La mossa finale sarà l’incarico a un solerte servitore dello Stato, un uomo della provvidenza della solita Banca d’Italia come il direttore generale Fabrizio Saccomanni o un prefetto benvoluto da tutti, come il ministro Cancellieri (anche se la vicenda Aldovrandi l’ha azzoppata), piuttosto che il presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo o il presidente del Senato Pietro Grasso. Comunque vada, saranno pannicelli caldi. Chiaro che Napolitano a questo punto pensi anche di gettare la spugna, dimettersi e accelerare il ritorno alle urne. In fin dei conti si è dimesso pure il Papa.