di Giulia Amarisse
Gli italiani ne sanno ancora poco, ma la rivoluzione energetica che sta trasformando il mercato del gas statunitense potrebbe toccare anche l’Italia. Gli imprenditori ne sono entusiasti, i politici temporeggiano e gli ambientalisti lanciano allarmi e richieste di chiarezza. Si parla di fracking, la tecnologia di trivellazione del sottosuolo che porta in superficie il gas di scisto, un idrocarburo non convenzionale meglio noto come shale gas. Fracking sta per hydraulic fracturing, un sistema di perforazione di rocce argillose con acqua, sabbie e sostanze chimiche iniettate negli strati geologici ad alta pressione per l’estrazione del combustibile.
È una tecnica conosciuta e praticata già da decenni, recentemente potenziata grazie allo sviluppo di trivellazioni orizzontali che permettono di liberare una maggiore quantità di gas dagli scisti bituminosi.
In gran parte dell’Europa la procedura è attualmente fuori legge o permessa solo in via sperimentale, ma i paesi dell’Est fortemente dipendenti dalle forniture russe, come Polonia e Ucraina, ne hanno già fatto una solida realtà.In Italia il fracking ha sollevato polemiche poco dopo il terremoto in Emilia, quando sono sorte accuse – smentite dalle inchieste – di presunte trivellazioni abusive nelle zone interessate dal sisma. Ad oggi la tecnica è stata utilizzata in via ufficiale unicamente dalla Indipendent Resources nel corso di un test esplorativo condotto in Toscana nel bacino di Ribolla, come riportato sul sito Internet della stessa società.
La scelta
Mentre la Strategia energetica nazionale redatta dagli uscenti ministri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente – Corrado Passera e Corrado Clini – afferma che il nostro paese «non intende perseguire lo sviluppo di progetti […] di shale gas», investitori americani e grandi compagnie internazionali criticano la reticenza italiana nell’apertura a un progetto che permetterebbe al paese di sfruttare i propri giacimenti per raddoppiare la produzione nazionale di idrocarburi, ridurre la dipendenza energetica dall’estero e creare nuovi posti di lavoro.
Il presidente dell’Eni Giuseppe Recchi ha definito «frustrante» l’impossibilità di sfruttare sorgenti gassose che il nostro paese possiede e che sono «più pulite» di altre. Colpa della burocrazia, della rigidità politica e dell’esistenza di «regole ataviche» legate alla proprietà fondiaria in Italia.
E la stessa Strategia energetica nazionale, nonostante il veto per l’Italia, riconosce l’accelerazione mondiale in corso nell’utilizzo del combustibile non convenzionale, la cui diffusione potrebbe triplicarsi entro il 2035 nel contesto del già crescente mercato del gas, tanto da giustificare l’appellativo del XXI secolo come “era del gas”.
Mentre si attende la verifica dell’effettiva sfruttabilità geologica delle riserve europee e la chiarificazione dell’impatto ambientale – ancora non ufficialmente prospettato nemmeno dagli Stati Uniti, la cui Environmental Protection Agency sta elaborando uno studio che verrà pubblicato nel 2014 – a mobilitarsi contro la fratturazione idraulica delle rocce di scisto sono le grandi associazioni ambientiste internazionali.
Gli ambientalisti
La militanza delle onlus, Greenpeace e Wwf in testa, parte dall’intento di sfatare il mito secondo cui il gas sarebbe una fonte di energia pulita, mito nel quale è incappato anche il presidente Obama nei discorsi degli ultimi anni.
Il gas, riportano i documenti degli ambientalisti, è una fonte fossile non rinnovabile e viene estratto e trasportato con modalità invasive che minacciano ambiente e salute pubblica. In particolare, se è vero che bruciare gas naturale è meno inquinante che bruciare petrolio, studi recenti – recepiti proprio da Greenpeace che ne riporta i contenuti nel suo report informativo sui pericoli del fracking – hanno rilevato che il gas naturale rilascia maggiori quantitativi di gas inquinanti durante il suo intero ciclo di produzione e distribuzione a causa delle emissioni fuggitive di metano, responsabile dell’effetto serra in misura sensibilmente maggiore rispetto al diossido di carbonio.
A riprova, le agenzie di stampa americane hanno recentemente reso noti gli alti livelli di inquinamento atmosferico presente nelle aree urbane e rurali dell’Ovest degli Stati Uniti, dove sono più abbondanti le trivellazioni per l’estrazione di gas e petrolio.
Poiché le fuoriuscite di metano provocate dal fracking risultano superiori a quelle che hanno luogo durante l’estrazione del gas naturale, l’impatto sul clima del gas di scisto in termini di emissioni totali di gas a effetto serra risulterebbe maggiore non solo di quello del gas convenzionale, ma persino del carbone.
L’ampia disponibilità geologica di gas non convenzionali, dichiara inoltre il Wwf, non giustifica da sé il ricorso a queste fonti, spacciate peraltro per meno costose di quanto realmente siano.
L’impatto
C’è poi il problema dell’impatto sulle risorse idriche: il fracking consuma ingenti quantità di acqua e parte di essa, destinata a contaminare l’acqua potabile, refluisce in superficie veicolando metalli pesanti, idrocarburi ed elementi naturali radioattivi impiegati come additivi ai fluidi utilizzati nel processo di fratturazione delle rocce. Non è tutto: il documento di position statement siglato da Greenpeace il 24 aprile 2012 denuncia l’inquinamento acustico e del suolo, il rischio di incremento di attività sismica nonché l’impatto socioeconomico e ambientale sull’agricoltura, sul turismo e sull’economia locale.
A fronte di incidenti già verificatisi, molti dati restano da accertare e confermare. Le scelte del governo italiano dovranno superare la frattura tra ecologismo e pragmatismo, che, si sa, sono poco portati al dialogo reciproco.
Se da una parte le lobby e le imprese puntano al profitto e all’abbattimento dei costi, anche sul versante dell’ambientalismo l’interesse e la faziosità sono spesso di casa.
Ciò che manca e che ci auguriamo di vedere presto è un’analisi completa, congiunta e complessiva di costi e benefici, che sappia valutare la rivoluzione dello shale gas nel quadro di una più ampia razionalizzazione energetica su scala economica e finanziaria.
Nel rispetto delle comunità, delle attività terziarie e del territorio, ma prima di tutto dell’equilibrio naturale, ambientale e climatico nel quale viviamo.
Equilibrio senza cui nessuna rivoluzione potrà avere un esito felice.