di Andrea Koveos
Silvio Berlusconi non molla l’osso. Il prossimo Presidente della Repubblica deve essere persona amica. Il Cavaliere sta tenendo alta l’attenzione sul Quirinale per paura di rimanere schiacciato tra Partito democratico e Movimento 5 stelle. Una personalità vicina al centrosinistra potrebbe dal Colle escludere definitivamente il Pdl dai giochi che si andranno a delineare nel caso probabile in cui Bersani dovesse fallire. Le vicende degli ultimi due decenni dimostrano come in situazioni di crisi, ci sia stato una aumento della dialettica tra Quirinale e governo, consentendo di fatto ai partiti di maggioranza ampi spazi di manovra. A danno dell’opposizione, mera spettatrice.
Benché la storia repubblicana del nostro Paese dimostri come i numerosi scioglimenti anticipati del Parlamento abbiano avuto ragioni diverse, anche semplicemente per la sola fine naturale della legislatura, la figura del Capo dello stato è sempre stata cruciale. Ancora di più quando, a cominciare dalla cosiddetta dottrina Scalfaro, l’impronta è stata decisamente più presidenzialista; la volontà cioè di chiudere con una legislatura può essere riconducibile alla determinazione del Presidente della Repubblica. Questo Berlusconi lo sa bene e non vuole correre il rischio di un Colle poco amico. E di un mancato salvacondotto.
Vale la pena ricordare come il primo scioglimento anticipato di entrambe le Camere si verificò il 4 aprile 1953. Il decreto fu firmato dal presidente Einaudi e riguardò inizialmente solo il Senato, con un ano di anticipo rispetto alla sua scadenza naturale e poi la Camera a una settimana dalla scadenza. Dal 1953 al 1972 tutte le chiusure anticipate possono essere definite più o meno tecniche, dovute all’esigenza di uniformare la durata delle due rami del Parlamento.
Il 28 febbraio 1972, il presidente Giovanni Leone decretò il primo “vero” scioglimento anticipato nella storia. Il Governo, formato da Giulio Andreotti in seguito alle dimissioni del precedente guidato da Emilio Colombo, non ottenne la fiducia. In quella circostanza maggioranza e opposizione si accordarono per ragioni di strategie elettorali. Nel 1976, il primo maggio, ancora Leone sciolse per la seconda volta le Camere dopo le dimissioni del presidente del Consiglio, Aldo Moro.
Il 2 aprile 1979 fece lo stesso Sandro Pertini e nel 1987 toccò a Francesco Cossiga. In quell’occasione il Quirinale tentò in ogni modo di evitare la fine della legislatura ma la volontà dei partiti fu più forte. Caso a parte merita il 1992, anno in cui si sarebbe potuto profilare un ingorgo istituzionale causato dal contemporaneo rinnovo dei mandati presidenziale e parlamentare. Ma il 4 novembre 1991 fu approvata la legge costituzionale che derogava al divieto del “semestre bianco”, dando quindi facoltà al Presidente di esercitare il potere prescritto.
Dopo la vittoria schiacciante del Sì ai referendum elettorali maggioritari del 18 e 19 aprile 1993 e dopo l’approvazione della nuova legge elettorale (il Mattarellum) il primo presidente della Repubblica che firmò lo scioglimento delle Camere fu Oscar Luigi Scalfano, il 13 gennaio 1994, che respinse però le dimissioni del presidente del Consiglio Azeglio Ciampi, che restò in carica fino all’insediamento del nuovo Parlamento. E nel febbraio del ‘96 Scalfaro decretò lo scioglimento assembleare dopo il fallimento di Maccanico.
Nell’epoca del bipolarismo altre furono le fini prima del previsto. L’otto marzo 2001 Ciampi sciolse le Camere Sette anni dopo, il 16 gennaio 2008 il Ministro della giustizia Mastella annunciò le proprie dimissioni. Nelle stesso anno il presidente esploratore, Franco Marini, non riuscì a formare un governo. Fu così che il Giorgio Napolitano firmò lo scioglimento delle Camere. E nemmeno per lui fu la prima volta. E’ accaduto di nuovo il 22 dicembre 2012. Le scadenze anticipate, dunque, possono verificarsi sia per autoscioglimento, nel senso che le trattative dei partiti hanno la meglio sul potere del Capo dello stato che si limita a certificare la fine, sia per decisione prioritaria del Presidente della Repubblica.
In entrambi i casi, Berlusconi e il Pdl non possono rimanerne fuori. A garanzia serve un presidente.
Di centrodestra.