Di Sergio Castelli
La richiesta di un riscatto ultramilionario non pagato, il blitz fallito per liberarlo e, infine, l’esecuzione. Si arricchisce di rivelazioni la storia sulla tragica fine del giornalista americano James Foley. Particolari che emergono direttamente dal Pentagono, altri da indiscrezioni giornalistiche. All’inizio dello scorso mese di luglio forze speciali, autorizzate direttamente dal presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, sono entrate in azione in Siria per provare a liberare gli ostaggi americani nelle mani dell’Isis. Ma il blitz fallì. Nel luogo dove sarebbero dovuti trovarsi i prigionieri non c’era nessuno. A spiegarlo è stato John Kirby, ammiraglio e portavoce del dipartimento della Difesa. Missione fallita. Altri particolari sull’operazione sono stati svelati dal New York Times: il blitz sarebbe avvenuto di notte. In una raffineria nel nord della Siria. Un’irruzione senza frutti quella condotta da venti uomini della Delta Force. Le ricostruzioni sono le più disparate. C’è chi parla di uno scontro a fuoco con i miliziani, e alcune dipartite, secondo altri non ci sarebbe stato alcuno scontro perché i terroristi avevano da poco lasciato il covo detentivo.
Il super riscatto
La via d’uscita per salvare la vita di Foley sarebbe stato il pagamento del riscatto. Alta, altissima la richiesta dei jihadisti; secondo il Wall Street Journal la vita di Foley valeva 100 milioni di euro. Ma gli Usa avrebbero rifiutato. Parzialmente differente la ricostruzione fornita da Philip Balbioni, l’amministratore delegato del Global Post su cui Foley scriveva: la scorsa settimana i familiari del reporter trucidato avrebbero ricevuto una mail dai terroristi in cui si minacciava l’uccisione del giornalista dopo i raid degli Stati Uniti sull’Iraq. Ma i jihadisti non avrebbero chiesto alcun riscatto né altro.
Indagini e bombe
Vanno avanti, intanto, le indagini per giungere all’identificazione del boia del reporter. Non ci sono più dubbi sulla sua nazionalità: inglese. Il Guardian, citando come fonte un ex ostaggio dell’Isis, afferma che l’uomo sarebbe di Londra. Conosciuto dai prigionieri come John. Sarebbe il capo di una cellula armata dell’Isis composta da estremisti britannici trasferitisi in Siria per combattere la guerra civile. John, già in passato, avrebbe condotto personalmente tutte le trattative per la liberazione degli ostaggi. Proprio per la loro provenienza britannica sarebbero stati soprannominati come “I Beatles”. Nella giornata di ieri l’Interpool ha posto l’accento sulla necessità di intervenire duramente contro il terrorismo islamico. E uno dei problemi più rilevanti è rappresentato proprio da quelle frange estreme occidentali che si arruolano tra le fila islamiche. Sempre in numero maggiore. Gli Stati Uniti, nel frattempo, valutano l’apertura di una base ad Erbil (Iraq) per coordinare le manovre; caccia americani hanno già ripreso i bombardamenti contro obiettivi sensibili per lo Stato islamico nelle vicinanze della diga di Mosul, nel nord dell’Iraq. Sono oltre 90 i raid condotti dagli Usa nel solo mese d’agosto in Iraq. Ma non mancano le polemiche sulla stampa a stelle e strisce per un Obama che dopo le dichiarazioni contro il crimine dei jihadisti se n’è andato tutto sorridente a giocare a golf.