Di Thomas Mackinson per Il Fatto Quotidiano
“Dobbiamo accelerare sulle riforme”. Matteo Renzi ha reagito così, mercoledì, alla batosta di un Pil negativo oltre le previsioni, e pure giovedì, dopo le parole di Mario Draghi che ha definito l’Italia “in ritardo”. Le riforme come unica soluzione per uscire dal pantano velocemente, dunque. Con un ostacolo che gli è noto da tempo: “E’ inutile fare leggi se non si applicano, è allucinante”. A fine luglio era intervenuto sull’annosa questione dei decreti attuativi mai attuati, quel fardello di migliaia di provvedimenti legislativi privi di norme di secondo livello che rallenta l’entrata in vigore delle leggi o le rende del tutto inapplicabili. Quel giorno, il presidente del Consiglio aveva scoperto che il senso della velocità che voleva imprimere alle sue riforme rischiava di schiantarsi contro il muro degli atti mancati e dei regolamenti mai regolati che ingessano le leggi ai blocchi di partenza. Oggi, dopo l’approvazione del decreto Pubblica amministrazione, il premier ha twittato di nuovo sull’argomento: “E ora sotto coi decreti attuativi“.
Perché la svolta buona, su questo fronte, non è arrivata. Lo certificano i numeri forniti dall’Ufficio per il Programma di Governo (Upg) a metà luglio: dopo soli cinque mesi di attività legislativa, i decreti inattuati imputabili all’esecutivo Renzi sono già 148. E presto saliranno ancora, per effetto dei decreti legge che stanno per essere convertiti: la riforma della Pubblica amministrazione e Dl competitività ne aggiungeranno altri 60-70. Stando all’oggi, dei 33 provvedimenti legislativi pubblicati in Gazzetta soltanto nove non rimandano a norme di secondo livello. Sono rimasti privi di attuazione, tra gli altri: i provvedimenti sulla Tasi, l’abolizione delle Province, il decreto Poletti sul lavoro, quello sull’Expo di Milano, la proroga dei commissari per le opere pubbliche e perfino il decreto Irpef che contiene il famoso bonus di 80 euro (di ieri, l’impegno di Padoan a rendere permanente il beneficio con la prossima Legge di stabilità). Non solo. Nonostante gli interventi normativi siano recenti, 14 regolamenti hanno già superato i termini fissati per l’emanazione, come nel caso del Durc semplificato: il decreto del Lavoro previsto dal Dl 34 (primo capitolo del Jobs act) che avrebbe dovuto rendere operativa la verifica online della regolarità contributiva delle imprese e che allunga a 120 giorni la validità dei dati dichiarati è scaduto da due mesi. Ma mancano anche i decreti che determinano e autorizzano le uscite per le misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale (Dl 66), quello che definisce i criteri per l’iscrizione all’albo delle “centrali acquisti” di beni e servizi diversi da Consip e Regioni (doveva arrivare entro il 23 giugno) e altri ancora. In pratica, la summa dell’intera attività di governo, o poco meno è rimasta sulla carta.
Il male, va detto, è antico. I governi Monti e Letta hanno lasciato un’ingombrante fardello alle amministrazioni centrali, schiacciate sotto il peso di 889 decreti inattuati. “Da allora però l’arretrato è calato, i decreti sono scesi a 543”, tiene a precisare Alessandra Gasparri, capo dell’Upg. Il motivo del miracolo, a ben vedere, non è un cambio di passo quanto il fatto che oltre 300, nel frattempo, siano decaduti per decorrenza dei termini. Quelli con termine puramente ordinatorio, invece no. Quelli non scadono mai. Così, tra i tanti ancora da smaltire, spunta il più vecchio di tutti. E’ il “regolamento sulla formazione artistica, musicale e coreutica” e quest’anno compie 14 anni. Ancora un anno fa veniva evocato dalla legge del governo Letta contente “misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca” (n. 104/2013). L’urgenza si è però fermata all’articolo 19 che richiama quel fantasma rimasto sulla carta dal 1999 a oggi. E’ ancora questo, secondo il Comitato per la legislazione della Camera, il decreto attuativo (inattuato) più longevo della Repubblica.
Ciò detto, su questo terreno Renzi non si è rivelato immune al male, anzi. Proprio quel sottobosco di regolamenti successivi, cui demandare in seconda battuta la concreta realizzazione dei provvedimenti, si è rivelato congeniale a una politica che privilegia la mera enunciazione di principi e obiettivi, spesso motivo di conferenza stampa, titoli di giornale e annunci. Il morbo del rimando, paradossalmente, si è fatto sentire perfino sulle contromisure che il premier aveva annunciato per guarire il malato accelerando la produzione dei decreti attuativi: una dopo l’altra, sono finite nel cestino.
La prima prevedeva l’istituzione di una speciale task-force incaricata di smaltire il lavoro arretrato, affidando al ministero di Maria Elena Boschi un “potere sostitutivo” nei confronti dei colleghi che non varavano decreti attuativi entro un determinato termine. La seconda prevedeva un meccanismo di silenzio-assenso, se il dicastero competente restava a guardare senza fare nulla il provvedimento veniva emanato comunque. Renzi ci puntava molto, e infatti entrambe le soluzioni erano state inizialmente inserite nel decreto legge sulla Pa. La disposizione è però sparita nella versione pubblicata in Gazzetta. In un primo tempo si era pensato a una vittoria degli apparati della burocrazia, poi si è appreso che erano state cancellate a seguito di un Consiglio dei ministri definito “acceso” dallo stesso presidente del Consiglio che, per la prima volta, si era trovato a fare i conti con la resistenza dei componenti del suo governo. Fatto sta che la cura da cavallo è uscita di lì trasformata in un proposito molto vago: “Ogni volta il Consiglio si aprirà con il ministro dell’Attuazione del programma, Maria Elena Boschi, che indicherà nome e cognome del ministro responsabile del ritardo”, ha detto Renzi in conferenza stampa “e speriamo che questo funzioni come campanello di allarme”. E speriamo.