Di Gaetano Pedullà
In teoria il tempo è scaduto. Il termine ultimo fissato da Etihad per salvare Alitalia scade domani ma i sindacati ancora giocano, tenendo in sospeso la decisione su una delle condizioni chiave poste dalla compagnia araba: limare lo stipendio del personale. Il ministro dei Trasporti Lupi si appella al buon senso, con lo stesso effetto dell’Onu quando chiede di sospendere le ostilità a Gaza: non lo ascolta nessuno. Ieri però la trattativa ha fatto un passo avanti, con il nuovo amministratore di Poste Italiane, Caio, che è riuscito a imporre le sue condizioni: non rifinanzierà la vecchia Alitalia – dove il suo gruppo ha già messo 75 milioni – ma una società intermedia e dunque la nuova azienda che nascerà con gli arabi.
Una vittoria, dunque, ma in fin dei conti una vittoria di Pirro, perché per ottenere il via libera delle banche azioniste Caio ha dovuto aumentare il nuovo impegno finanziario di Poste da 40 a 65 milioni. Hanno i soldi, che li spendano, si potrebbe commentare. In realtà però Poste qualche problema ce l’ha, visto che non riuscirà a quotarsi in Borsa entro quest’anno come previsto dal Governo nel Def. Dunque come rifarsi? Come al solito facendola pagare a tutti noi. Proprio ieri l’Authority per le Comunicazioni ha fissato i nuovi oneri a carico dello Stato per il servizio postale universale (cioè la corrispondenza) e subito Poste ha chiesto di raddoppiare questi oneri, per un costo tre volte superiore a quanto investito in Alitalia. Lo Stato potrà pagare? Certo che no e dunque all’orizzonte già si vede un aumento del prezzo dei francobolli. Troppo facile così far quadrare i conti.