Di Gaetano Pedullà
Troppo poco prenderne la croce. Papa Francesco ieri ha preso su di se le cicatrici scolpite sulla pelle e sull’anima delle vittime dei preti pedofili. L’ha fatto con il dolore e l’umiltà di chi guida una Chiesa che ha tradito. Ha ascoltato storie, incubi che non possono andar via, e ha ammesso un dramma che sul soglio di Pietro si è troppo a lungo ignorato. Il male può insinuarsi anche dentro una tonaca, rubare l’innocenza e la stessa vita dei poveri ragazzi finiti tra le mani di sacerdoti sbagliati, ma quel far finta di niente, o peggio perdonare subito i carnefici, è stato forse il peccato più grande.
Un simbolico via libera che ha nascosto chi invece andava trovato e privato di un abito talare che indossava indegnamente. Ora, fatto un altro grande passo, la stessa cronaca di questi giorni ci dice che non ci si può fermare. Così come scomunicare i mafiosi serve a poco se poi la Madonna portata in processione si ferma a omaggiare il boss di un paese, allo stesso modo chiedere perdono per i preti pedofili resta un gesto dovuto, ma poco più. Così come la Chiesa di periferia va responsabilizzata, nei paesi della ‘ndrangheta come nei ghetti delle grandi città, parallelamente il cancro degli abusi sessuali va affrontato con una grande riflessione sull’utilità ancora oggi di una castità di cui forse a Dio non importa un bel niente. Un passo gigantesco per i guardiani di un’ortodossia fuori dal tempo, ma che forse aiuterebbe la Chiesa a diventare più moderna, più sana e vicina alle persone. Un Vangelo che vive al posto di una fede che muore.