Di Gaetano Pedullà
Nell’ultimo periodo della sua vita, mi capitava di sentire spesso il presidente della Repubblica emerito, Francesco Cossiga. Prima di ogni conversazione telefonica, l’ex Capo dello Stato si soffermava in un breve preambolo, sempre lo stesso, per salutare “il maresciallo” – così lo chiamava – che a suo dire ci stava registrando. Essere ascoltati era diventata una violazione della libertà personale contro la quale non c’era possibilità di combattere, perché anche una battuta innocente, una volta trascritta su un verbale di polizia o su un quotidiano, può diventare la prova provata della più feroce accusa. A differenza di Cossiga, il legislatore invece ha provato più volte ad opporsi, regolando la pubblicazione delle intercettazioni, tirando fuori però solo un ragno dal buco.
Normare in linea generale cosa si può dare in pasto ai lettori e cosa no, è un’opera impossibile. L’ultimo a cimentarsi nell’impresa è stato lunedì scorso il presidente del Consiglio, che ha chiesto ai giornalisti di esprimersi, aiutando il Governo a decidere per fermare questo Far West. Un direttore autorevole, come Antonio Padellaro, sul sito del Fatto Quotidiano, ha proposto al premier di non muovere nulla, perché fare una legge è impossibile e a garanzia dei cittadini ci sono già il codice penale, il Garante della Privacy e la carta di Treviso, con le regole deontologiche sui minori. Certo, se bastassero correttezza e buon senso, non avremmo bisogno di leggi e codicilli per regolare ogni centimetro del nostro vivere comune. E siccome correttezza e buon senso sono merce sempre più rara, soprattutto nei grandi casi giudiziari, l’idea di Padellaro mi pare monca. E comunque lascerebbe le cose così come stanno.
Personalmente credo che invece debbano essere i magistrati, gli stessi che passano a noi giornalisti le carte dei procedimenti o che consegnano gli atti agli indagati, a dover specificare nel caso si utilizzino intercettazioni, cosa può essere pubblicato e cosa no. Si assumano la responsabilità di scindere le conversazioni prive di interesse pubblico da quelle private e attinenti alla sola sfera personale. Tutto quello che non passa dal vaglio dei magistrati – che continueranno a disporre liberamente delle intercettazioni per le loro attività d’indagine – non potrà essere pubblicato se non a costo di una forte sanzione, senza arrivare però al carcere. In questo campo, fuori dalle intercettazioni la cui diffusione è autorizzata, allora sì che entreranno in gioco la sensibilità e il buon senso – se ci sono – del giornalista. Un percorso analogo a quello dei magistrati, che con le intercettazioni molto spesso hanno messo da parte altrettanto buon senso, visto quanto spendono per ascoltarci: un miliardo e trecento milioni in cinque anni. Troppo,anche perché questi soldi non ci sono. E forse – dove il buon senso non si vede – mettere un tetto alla spesa non sarebbe poi un’idea così malvagia.