di Marco Castoro
Basta un’inquadratura per riconoscere un film di Sergio Leone. Quelle lunghe sequenze, così piene di silenzi. Quegli sguardi impietriti nei quali si muove al massimo un solo muscolo facciale. Robert De Niro che impiega due minuti per girare lo zucchero nella tazzina del caffè. Con il tin-tin del cucchiaino che fa da colonna sonora. E gli occhi degli altri che rimbalzano come palline da ping-pong. E ancora Clint Eastwood con le sue due espressioni, una con il cappello e l’altra senza il cappello.
L’esaltazione del mito
Nella testa di Leone il cinema doveva essere spettacolo. Perché a volerlo è il pubblico. E lo spettacolo più bello è quello del mito. Come dargli torto. Nei suoi film non manca mai l’eroe. Silenzioso e giustiziere. Bob e Clint, i suoi modelli più riusciti. Anche se Charles Bronson in C’era una volta il West si avvicina molto ai due. Ma Eastwood e De Niro sono i preferiti dal regista che li descriveva così. Bobby si butta nel film e nel ruolo assumendo la personalità del personaggio con la stessa naturalezza con cui uno potrebbe infilare un cappotto, mentre Clint indossa un’armatura e abbassa la visiera con uno scatto rugginoso. Bobby, prima di tutto, è un attore. Clint, prima di tutto, è un divo. Bobby soffre, Clint sbadiglia.
Devono essere riconoscenti a Leone anche grandi attori come Gian Maria Volontè, James Coburn, Rod Steiger, Eli Wallach, Lee Van Cleef.
Spaghetti western
Leone è diventato famoso grazie a un genere di film che spopolò negli anni ’60 e ’70: Spaghetti western. Il primo fu Per un pugno di dollari, seguito da Per qualche dollaro in più e da Il buono, il brutto e il cattivo. Protagonista il gringo col poncho che accende il sigaro sulla barba dei nemici, che parla poco, non si rade e non si lava, scruta ogni angolo e fa strage di cattivi. Per un pugno di dollari costò solo 120 milioni di lire e fu girato con pochissimi mezzi. Inquadrature che passano da grandi aperture a primissimi piani. Il sogno di ogni attore, come ricorda Claudia Cardinale. Per un pugno di dollari fu accusato di plagio e perse la causa contro Akira Kurosawa. Che come risarcimento ottenne la distribuzione del film in Giappone e in Asia. Niente male se pensiamo che la pellicola incassò quasi 3 miliardi di lire. In pochi ricordano che sia il regista Leone sia l’attore Gian Maria Volontè si diedero un nome d’arte americano per essere più credibili in fatto di film western. Nei titoli troviamo Bob Robertson e John Wells. Tuttavia l’opera prima di Leone non è stata Per un pugno di dollari ma Il colosso di Rodi. Un film che gli causò una lite con l’attore protagonista John Derek che mollò baracca e burattini e se ne tornò a casa. Questo film resta l’unico di Leone la cui colonna sonora non è stata realizzata dall’inseparabile amico Ennio Morricone.
Il capolavoro
C’era una volta in America è il film che gli americani ci invidiano da sempre. Perché non l’hanno realizzato loro. Addirittura all’inizio ne hanno ostacolato la diffusione. La prima versione proiettata nei cinema statunitensi fu molto ridotta rispetto all’originale. Furono tagliate diverse sequenze. La versione originale resta un capolavoro. Leone impiegò dieci anni per preparare questo film e tre per girarlo.
Le manie e gli amici
La notte in cui Sharon Tate e altri furono massacrati a Bel Air, Sergio Leone e l’amico sceneggiatore Luciano Vincenzoni dovevamo essere lì alla festa. Sarebbero dovuti arrivare proprio all’ora dei delitti. Ma Vincenzoni fu invitato a San Francisco dal proprietario della Transamerica Corporation. Quindi Leone sarebbe dovuto andare alla festa da solo. Il regista andò al ristorante di Billy Wilder con uno scrittore. Poi dopo cena decise che prima di andare si sarebbe fatto una doccia in albergo e, grazie alla sua eccessiva traspirazione, alla pigrizia e a un bicchierone di whisky che lo stese, non andò quella notte a Bel Air e si salvò da una strage atroce.
Leone era terrorizzato dai voli. Ogni volta che saliva su un aereo si guardava attorno come fa un uomo braccato. E se soltanto i suoi occhi si imbattevano su un bambino veniva assalito dal panico. Perché – diceva – le scene dei disastri aerei che si vedono in tv hanno sempre un’inquadratura su un peluche o su una scarpetta.
Un’altra mania che mandava in bestia l’amico Vincenzoni era la maniera con cui Leone degustava un bicchiere di Brunello Biondi Santi d’annata: ci aggiungeva l’acqua!