La notte di Ancelotti per diventare Real Carlos

di Alessandro Banfo

Diego Simeone è avvertito: Carletto “preferisce la coppa”. Questa frase non è solo il titolo della biografia di Carlo Ancelotti, ma il filo rosso che segna la carriera del tecnico italiano, che domani sfida nella finale di Champions League la sorpresa Atletico Madrid. Per il mister originario di Reggiolo, paesino di diecimila anime nel cuore dell’Emilia, non è una novità arrivare all’atto finale della massima competizione europea: è la settima finale. Tre da giocatore (di cui una non giocata) e ben quattro da mister. A Lisbona ci arriva alla guida del Real Madrid, che insegue il sogno della Decima e un trofeo che manca dal 2002, quando un goal di Zinedine Zidane fece impazzire i tifosi blancos. Alla guida di quel Real c’era Vicente Del Bosque, un mister che assomiglia non poco ad Ancelotti. L’allenatore emiliano è un vincente dalla forza tranquilla: nessun urlo, nessun nemico da attaccare. Conosce a fondo il sacrificio e la sofferenza (quando giocava nella Roma si rompe entrambi i crociati, ed entrambe le volte è tornato più forte di prima) e nel corso del tempo impara come stemperare le tensioni con buonismo e un tocco di ironia emiliana. Ha avuto a che fare con alcuni dei presidenti più scorbutici del calcio. Con il Milan, dove vince due Champions League da tecnico dopo gli straordinari successi da centrocampista, contiene le uscite di Silvio Berlusconi con aplomb britannico, forte dei rapporti con lo spogliatoio.

Meglio di Mourinho
Al Chelsea, dove piazza un storico double (Premier più Fa Cup) è riuscito a gestire Roman Abramovich, il patron russo che cacciò persino Mourinho. Lui è l’esatto opposto del vate di Setubal e in un anno a Madrid ha fatto meglio di Mou in tre stagioni. Come? Arrivando in finale e conquistando uno spogliatoio pieno di stelle che il portoghese non era mai riuscito a comandare come gli successe ai tempi del Triplete interista. La riprova ne sono le parole di Cristiano Ronaldo: “Ancelotti è semplicemente il miglior tecnico con cui abbia mai lavorato”.
A Madrid Carletto è arrivato senza strilli, ma ha riportato al Bernabeu il gusto del calcio con tecnica, tattica, grinta e bel gioco. Il suo è il miglior calcio italiano d’importazione, il made in Italy che sorride e che al massimo si concede quel suo caratteristico sopracciglio all’insù.
Nelle sue infinite evoluzioni tattiche, Ancelotti non ha mai rinunciato a giocare. All’inizio era un devoto del 4-4-2, ma poi ha modificato le sue idee, adattandosi a tutte le situazioni della sua carriera. Carlo ha mosso i primi passi da allenatore all’ombra dei dogmi sacchiani, lavorando con lui come vice della Nazionale. Ma ha miscelato alla grande tutti i suoi maestri. Ha ricordato le lezioni di Liedholm, l’uomo che lo trascinò nel calcio dei grandi scoprendolo a Parma e trasformandolo da trequartista a centrocampista di qualità e quantità. Ha preso spunto da un giovane Sven Goran Eriksson, il primo a mettergli in testa l’idea del calcio giocato a velocità supersonica, come quello sfornato davanti a Pep Guardiola nella semifinale contro il Bayern Monaco. Tutte lezioni che hanno formato il Carletto versione 2014, dove la tattica e il pragmatismo si sposano con la valorizzazione dei giocatori. E i calciatori lo seguono, anche tipini difficili come Seedorf o Ibrahimovic, che con lui ha vinto un titolo francese nella breve esperienza al Paris Saint Germain. Forse ammirano la sua bacheca o forse capiscono che i consigli che lui dà sono utili per migliorare se stessi e la squadra. Il caso emblematico è quello di Andrea Pirlo, trasformato in un afoso Trofeo Berlusconi da rifinitore un po’ indolente a regista unico nel suo genere. Senza eccessi Ancelotti, comunque vada a Lisbona, ha vinto ovunque: Italia, Inghilterra, Francia e Spagna, dove la Liga gli è sfuggita solo per l’intensità e la voglia matta dei colchoneros che proprio domani sfiderà. A 55 anni è già un allenatore totem, una sorta di Trapattoni 2.0 con uno spirito più offensivo.

Le delusioni
Ma nella carriera di Ancelotti non sono mancati i momenti bui che il tecnico emiliano cancellerebbe volentieri ma che rimangono lì, impressi nella sua memoria. Sono tutti attimi contraddistinti da circostanze molto particolari che qualcuno definirebbe “sfigate”. Da giocatore assiste impotente dalla tribuna allo psicodramma di Liverpool del 1984, con la Roma che perde ai rigori la sua unica finale europea. Da allenatore sopporta per due anni gli insulti dei tifosi della Juventus, che gli ripetono che “un maiale non può allenare”. Ma in quegli anni Ancelotti fa bene, recuperando Del Piero dopo l’infortunio e raggranellando in due anni 144 punti. Il titolo non arriva però, anche per circostanze quasi impossibili da prevedere come la partita allagata con il Perugia che consegna lo scudetto alla Lazio. Ma è al Milan, dove Carletto ha sicuramente avuto più soddisfazioni finora, che si consuma il peggio: la finale di Istanbul del 2005 con il Liverpool. In vantaggio per tre zero alla fine del primo tempo, i rossoneri si fanno recuperare e perdono ai rigori una partita rimasta nella storia per il colpo di scena. Ma Ancelotti ha saputo sempre ripartire con sorriso e sicurezza. A Madrid qualcuno dice addirittura che in caso di sconfitta potrebbe essere esonerato. Ma lui è sereno, perché come ama ripetere, “io mi esalto quando la panchina è rovente”. Anche perché se dovesse lasciare Madrid, non farebbe fatica a trovare un posto di lavoro. Magari con un ritorno a Roma, uno dei suoi sogni nel cassetto, e perché no, “vendicarsi” di quella finale. Senza rabbia però , magari solo alzando un po’ il sopracciglio.