di Domenico Quirico per La Stampa
Venti anni fa tutto cominciò con un delitto di Stato. Il Falcon del presidente del Ruanda Juvenal Habyarimana, reduce da un vertice di capi di Stato in Tanzania con equipaggio francese e a bordo il presidente del Burundi Ntaryamira, fu colpito da un missile quando era ormai in fase di atterraggio a Kigali. Nessuno si salvò. Passarono poche ore e tutto il Ruanda cominciò a grondare sangue. Negli spasimi di una lunga tragedia etnica i fratelli nemici hutu e tutsi si sbranavano da secoli per un paradiso terrestre. La morte del presidente, un hutu, fu come il segnale atteso della ennesima resa dei conti. Perché tutto era stato preparato con metodo: gli elenchi di chi doveva essere ucciso, i magazzini con le armi comprate grazie a un sollecito prestito di una banca francese (Parigi era la grande alleata degli hutu al potere), gli estremisti huti erano in attesa dell’ordine, pronti, frementi, gonfi di birra e di odio.
Sul Paese scese il tempo di Caino, come una febbre maligna che annullava e travolgeva le coscienze. Un esercito tutsi, armato dall’Uganda e dagli americani, stava avanzando: erano i figli di un altro genocidio che cercavano la rivincita. La FranceAfrique, gli americani: anche stavolta c’erano sullo sfondo potenti burattinai. Le bande dei manovali della morte, che si facevano chiamare «i compagni’», andarono nelle caserme per ricevere machete fucili e bombe a mano. I rayban sul naso, ruttando alcool e ferocia, strinsero Kigali e i villaggi e le città in un laccio di posti di blocco. Sui documenti di identità la definizione etnica, sciagurato retaggio coloniale, era il corrispettivo della stella gialla degli ebrei, divideva chi aveva diritto alla vita dagli Altri, «gli scarafaggi» da schiacciare.
Avevano con sé le radioline, una voce infarinata di odio leggeva senza tregua gli elenchi interminabili di nomi, indirizzi di abitazioni, numeri di targa di auto dei tutsi da eliminare. Fu una notte di san Bartolomeo che durò cento giorni. Poco a poco gli assassini cominciarono a scarseggiare di pallottole, allora tirarono fuori i coltelli le lance i «masu», i bastoni cosparsi di chiodi. Si videro assassini che braccavano le vittime impugnando un cacciavite, un martello, il manubrio di una bicicletta. Un massacro autarchico e ferocemente minuzioso, fino all’ultima goccia di sangue. Vicini di casa che fino alla sera prima incontravano le vittime per i piccoli riti della quotidianità, un saluto un dono un pettegolezzo, suonarono all’uscio e cominciarono a colpire con i machete. Miti insegnanti andarono alla ricerca dei colleghi colpevoli di essere tutsi e li massacrarono con la furia di killer professionisti.
I mucchi di cadaveri cominciarono a crescere, di ora in ora. Il sindaco di Kigali, che neppure in quell’infamia perse i modi di persona educata, arruolò i detenuti, fece loro scavare in periferia enormi fosse comuni per gettarvi le vittime, non voleva le epidemie, diamine!
Da quando huti e tutsi hanno cominciato a scambiarsi massacri, le vittime hanno sempre cercato rifugio nelle chiese. Qui l’odio si era sempre fermato, la mano degli assassini sollevata come in un sussulto di misericordia. Venti anni fa non fu così. I soldati gettarono bombe nelle navate dove le vittime, insieme a preti e missionari, si facevano coraggio cantando inni e preghiere. I miliziani preferirono l’arma bianca. Sgozzarono squartarono prolungarono con tecnica consumata il martirio. Quelli che fino al giorno prima erano buoni parrocchiani coprirono gli altari e le statue dei santi con il sangue di coloro che fino al giorno prima erano inginocchiati al loro fianco per la comunione. Nelle famiglie miste ed erano migliaia, gli hutu dovettero scegliere tra l’uccidere la moglie o il marito o morire a loro volta. Molti furono gli eroi per forza, molti di più, troppi, purtroppo gli obbedienti.
Romeo Delaire era un generale canadese, comandava il piccolo, impotente contingente dei caschi blu a Kigali. Vide l’attentato all’aereo del presidente alla Cnn seduto nel suo bungalow nella capitale. Sulla scrivania i telegrammi disperati che aveva inviato nelle settimane precedenti alla segreteria delle Nazioni unite per avvertire che si stava preparando qualcosa di orribile formavano una pila alta. Li aveva ricevuti il suo superiore, l’uomo che dirigeva il dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace. Era un africano. Delaire era sicuro che sarebbe stato sensibile al rischio di una altro genocidio nel «suo» continente. Aveva chiesto soldati per sequestrare i depositi di armi per il massacro: non era un mistero, tutti i vicoli della capitale ne parlavano. Ricevette un telegramma con un no secco e sgarbato. La firma: Kofi Annan.
Ottocentomila morti ha lasciato dietro di sé il genocidio ruandese. A cui bisogna aggiungere quelli della vendetta dei tutsi arrivati dal Ruanda. Altre decine di migliaia, nessuno li ha mai contati, i loro scheletri sono nelle foreste del vicino Congo dove avevano, invano, cercato rifugio. Su di loro scese un secondo colpevole silenzio.
Perché per fermare quell’orrore non bastarono le parole. Ci vollero le immagini. Per farci capire. Ancora una volta, un’altra volta. L’occidente, filisteo, mellifuo, fece scorrere i giorni del massacro, gli avvertimenti, le urla di aiuto: sono africani, poveracci, hanno solo coltelli e bastoni per confezionare un genocidio ci vuole altro, il taylorismo della morte, l’industrializzazione dell’omicidio, l’asettica efficienza delle camere a gas dove assassino e vittima non si toccano, non si vedono, si schiacciano bottoni anonimi, si manovrano leve apparentemente neutre. E invece il segno sicuro del materializzarsi di questa terribile invenzione semantica, genocidio, è il senso oscuro che l’uomo ha superato la frontiera del Bene e del Male e si era avventurato su sentieri senza ritorno: ovvero gli assassini erano completamente privi di rimorsi e le vittime non si ribellavano, gli uni lavoravano di coltello sulla carne dei loro simili senza che nulla li turbasse e gli altri offrivano il collo alla lama come se fosse da tempo immemorabile nel loro destino. Venti anni dopo le immagini di quella tragedia non sono ricordi ma figure che davanti a noi si muovono, vive, presenti, la realtà così come è, tremenda, in ogni secondo, e con i più la risultanza, il grumo, la verità, la farina passata al sottile setaccio di tanti anni.