dalla Redazione
Hanno scelto il momento di massima esposizione mediatica della Russia per annunciarlo, e lo hanno fatto in un momento di grande interesse mediatico per la città che l’ha accolte. Non c’è che dire: almeno a livello di comunicazione ci sanno fare. La via che le Pussy Riot sono state costrette a percorrere per arrivare nella capitale tedesca, nel mezzo del festival cinematografico della Berlinale, è passata per quasi due anni di carcere. E una grazia, concessa dal loro acerrimo nemico, il presidente russo Vladimir Putin, che ora vogliono sfidare sul suo terreno, quello della politica con la p maiuscola. “Si’, cercheremo di entrare in Parlamento a Mosca”, hanno rivelato Nadeschda Tolokonnikova e Marija Aljochina durante una conferenza stampa per un galà nella capitale tedesca dedicato al tema ‘cinema for peace’. Del resto “ne vale la pena”, hanno detto le due ventenni mentre al loro fianco era seduto il nipote di Nelson Mandela, un pezzo di storia. Quello di Putin, hanno attaccato le ragazze del collettivo russo, sulla cui storia alla Berlinale è stato presentato un documentario, “e’ un regime debole, che non è in grado di riconoscere i propri errori”.
La loro vicenda è ormai nota in tutto il mondo: una ‘preghiera punk’ e un testo politico ‘blasfemo’ urlato nella cattedrale ortodossa di Mosca, nel febbraio 2012, è costato loro un processo e una condanna spropositata, a due anni di carcere. “Non volevamo offendere la sensibilità religiosa” di nessuno, spiegano ancora oggi. Ma denunciare un sistema corrotto, quello si’. Le notizie sul processo e sulla condanna per quel gesto politico hanno fatto il giro del globo, scatenando un’intensa ondata di solidarietà e biasimo nei confronti di un presidente ‘zar’ che esercitava il suo potere su tre ventenni ‘per educarne cento’. Ma le Pussy Riot, com’era prevedibile, hanno avuto la loro rivincita: le maschere-passamontagna indossate in quell’incursione sono diventate un simbolo di libertà, rompighiaccio nell’era glaciale dei diritti civili firmata Putin. E oggi le loro parole hanno il peso di valanghe. Gli anni di prigionia sono stati duri: “La cosa peggiore che puo’ capitare a una persona in carcere è la sensazione di essere finito in un vicolo cieco – ha confidato Aljochina -, e di non aver più scelta”. Per questo le due Pussy Riot hanno spiegato di voler fondare un’organizzazione per la liberazione dei prigionieri politici in Russia, ‘Zona del diritto’. Che però si occuperà anche di migliorare le condizioni terribili cui sono sottoposti i carcerati nel loro Paese. “Se il mondo sapesse quel che accade dietro le mura delle carceri russe, non lo dimenticherebbe tanto facilmente”, ha aggiunto Tolokonnikova.
La loro esperienza in carcere si e’ conclusa a dicembre con un’amnistia, inaspettatamente, a pochi giorni dai giochi invernali di Sochi. “Abbiamo due anni di carcere alle spalle. L’amnistia è solo un modo che Putin ha trovato per ripulire la sua immagine a livello internazionale. In realtà dei prigionieri politici sono pochissimi quelli che possono beneficiarne e uscire dal carcere. Sono circa 863 mila i prigionieri politici, e soltanto un migliaio ha goduto dell’amnistia”. Da quando le porte del carcere si sono aperte, poco prima dello scorso Natale, per le due Pussy Riot che non avevano chiesto perdono al ‘regime’ la vita ha preso una piega tanto nuova, quanto prevedibile. Prima della Berlinale, Nadia e Maria erano state sul palco newyorchese dell’icona storica del pop Madonna. Ora sono a Berlino, dove domani saranno ricevute dal sindaco socialdemocratico Klaus Wowereit. E dove a dicembre era atterrato anche l’ex magnate Mikhail Khodorkovsky, dopo dieci anni di carcere e una grazia firmata Putin.