In Ungheria stanno affinando l’arte del controllo. Non bastavano le leggi contro la stampa libera, le restrizioni alle Ong, il bavaglio alla comunità LGBTQ+. Ora il governo di Viktor Orbán si prepara a colpire il diritto più elementare: la cittadinanza. Non una revoca, che richiederebbe garanzie, ma una “sospensione”, una zona grigia giuridica che priva i cittadini dei loro diritti senza togliergli formalmente lo status. Un’invenzione che il giurista Nagy Boldizsár ha definito “assurda e inapplicabile”. Ma proprio per questo funzionale.
Il meccanismo è stato introdotto con il quindicesimo emendamento alla Costituzione ungherese, approvato nell’aprile 2025, e regolato dal disegno di legge T/11414. Si applica esclusivamente ai cittadini ungheresi con doppia nazionalità di un paese extra-Ue o extra-See. Le motivazioni? Difendere la sovranità nazionale da chi agisce “nell’interesse di potenze straniere” o rappresenta una “minaccia alla sicurezza”. Termini vaghi, senza definizione giuridica, sufficienti però a mettere in scacco oppositori, giornalisti, attivisti e membri della diaspora che osano criticare Orbán.
La decisione spetta a un ministro del governo, senza intervento del presidente della Repubblica, senza il filtro di un tribunale ordinario. Chi si oppone ha trenta giorni per fare ricorso alla Corte suprema, la Curia, ma senza possibilità di sospendere l’esecuzione del provvedimento e con un margine di giudizio ridotto al minimo. La Curia può annullare la sospensione solo per errori formali o se manca la prova della doppia cittadinanza. Non può entrare nel merito della valutazione politica. L’interessato non può nemmeno presentare testimoni o perizie. E se la cittadinanza viene sospesa, la persona può essere espulsa ed espulsa sarà, entro 72 ore, senza più alcun diritto.
L’operazione è chirurgica. La legge evita la creazione formale di apolidi, limitandosi ai doppi cittadini. Ma crea di fatto degli apolidi funzionali, senza passaporto, senza protezioni, senza diritti. Una condizione che può durare fino a dieci anni. Un limbo costruito apposta per essere punitivo, per spaventare.
Sovranità come arma contro il dissenso
Dietro il lessico della sicurezza nazionale si nasconde la volontà di consolidare il potere. Lo ha spiegato chiaramente David Koranyi, presidente di Action for Democracy, bersaglio diretto di questa normativa. La sua organizzazione, con base a Washington, finanzia e supporta movimenti democratici in Ungheria. Orbán la considera un cavallo di Troia americano. Koranyi, cittadino ungherese e statunitense, ha scritto su Politico che la nuova legge gli consentirebbe di essere cancellato “dalla nazione, dal corpo e dall’anima”, senza appello.
Il governo ha già messo in campo la Sovereignty Protection Authority, l’autorità creata per indagare sulle attività ritenute ostili agli interessi ungheresi, con poteri illimitati di accesso a dati e informazioni. Ora questa autorità potrà fornire al ministro il pretesto per sospendere la cittadinanza. Un meccanismo perfetto: si costruisce il caso, si applica la sanzione, si evita qualsiasi dibattito.
Il tempismo non è casuale. La legge arriva mentre Budapest vieta il Pride e annuncia il ritiro dalla Corte penale internazionale per non doversi piegare al mandato d’arresto contro Benjamin Netanyahu. Una linea che tiene insieme repressione interna e isolamento internazionale, ridisegnando l’Ungheria come fortino sovranista in Europa.
Un precedente pericoloso per l’Unione europea
Le reazioni internazionali non sono mancate. La Commissione europea ha già avviato procedure contro l’Ungheria per le leggi che limitano la libertà di associazione e i diritti LGBTQ+. Ma questa nuova norma alza la posta. La sospensione della cittadinanza priva automaticamente i cittadini anche dello status di cittadini europei, con tutte le tutele che ne derivano. E il modo in cui viene applicata viola apertamente i principi di proporzionalità, non discriminazione e stato di diritto sanciti dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea.
Resta da vedere se Bruxelles avrà il coraggio di intervenire. La procedura dell’articolo 7 contro l’Ungheria langue da anni, bloccata dai veti incrociati tra gli Stati membri. Ma il punto è politico, prima ancora che giuridico. Lasciare passare una legge che consente di silenziare il dissenso esiliando i critici sotto la veste di una sospensione amministrativa significa accettare che i valori europei siano negoziabili.
Il governo Orbán ha trovato una nuova arma per disciplinare i cittadini ribelli. Un’arma che non uccide, ma cancella.