Non è una metafora, non è una suggestione poetica. È un fatto. L’acqua è finita. E dove l’acqua finisce, finisce tutto il resto. Non c’è battaglia che giustifichi la sete, non c’è ostaggio che valga un bicchiere negato. Eppure Gaza muore lentamente, mentre il mondo distratto misura la tragedia a colpi di breaking news.
A Shajaiya, sobborgo orientale di Gaza city, l’acquedotto che forniva il 70% dell’acqua potabile è stato distrutto dai bombardamenti israeliani. Le autocisterne non arrivano, i valichi restano chiusi, le taniche restano vuote. Chi non ha forza per resistere beve acqua contaminata. Muore di dissenteria. Muore senza un colpo di arma da fuoco. La sete è diventata una condanna a morte silenziosa.
Un milione e ottocentomila persone — oltre la metà sono bambini — vivono con 3-5 litri d’acqua al giorno. L’Organizzazione mondiale della sanità ne raccomanda almeno quindici in emergenza. A Rafah si è scesi sotto il 5% dei livelli pre-offensiva. Nel nord, l’impianto di desalinizzazione è stato colpito a gennaio. A marzo, Israele ha tagliato l’elettricità a quello nel sud. Senza energia non si desalinizza. Senza desalinizzazione si beve acqua sporca. E si muore lentamente, dice l’Unrwa.
Nel lessico disumanizzante della guerra, la sete è un’arma. Francesca Albanese, relatrice Onu, l’ha definita un crimine di guerra. Lo ha ribadito anche Michael Lynk: negare l’acqua a una popolazione sotto assedio viola il diritto internazionale umanitario. Nessuno muore mai per sete, in televisione. Ma è lì che si muore davvero. Lentamente, nell’indifferenza.
E chi decide che questo sia tollerabile non combatte il terrorismo. Lo imita. Sistematicamente.