Per un giorno le opposizioni si sono sedute dalla stessa parte del tavolo, non per un accordo elettorale ma per denunciare una deriva democratica. Il servizio pubblico è diventato espressione diretta del governo. L’informazione televisiva si restringe sotto il peso delle nomine, delle epurazioni, delle intimidazioni. E la riforma della Rai diventa l’occasione per reagire.
Nel corso di un incontro alla Stampa Estera dedicato al Media Freedom Act, Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Riccardo Magi e Angelo Bonelli hanno chiamato il governo alle sue responsabilità, invocato una riforma condivisa e rivendicato l’urgenza di difendere la libertà di stampa. Non si tratta di un fronte unitario, ma qualcosa si muove. E la posta in gioco, stavolta, riguarda le regole del gioco.
Il Media Freedom Act è legge, e l’Italia è già in ritardo. L’8 agosto scade il termine per il recepimento. “Bisogna che Meloni capisca che la festa è finita”, ha detto la segretaria del Partito democratico. “Questa maggioranza è ubriaca di occupazione militare e scientifica della Rai. Non si era mai arrivati a questi livelli”. E mentre il Parlamento tace, la Commissione di Vigilanza è paralizzata: “Un vero scandalo”, ha denunciato Conte, ricordando che i presidenti di Camera e Senato non hanno neppure risposto alla richiesta della presidente Floridia di sbloccare i lavori.
Non è solo una riforma
L’unità non è nelle formule, ma nel metodo: costruire un percorso che coinvolga le forze politiche e la società civile per liberare la Rai dall’occupazione sistematica. “Dobbiamo entrare nel vivo della riforma, fare sintesi, coinvolgere la maggioranza”, ha insistito Conte. Fratoianni ha parlato della necessità di “una lunga marcia” per affermare l’informazione come bene comune. Bonelli ha aggiunto che la riforma del premierato è “strettamente collegata al tentativo di assoggettare l’informazione ai voleri del governo”.
La trasformazione della Rai in un’emittente governativa è una delle tante facce del disegno politico di chi comanda. Si chiama Telemeloni, ed è il contrario di un servizio pubblico. La denuncia arriva anche dall’esterno: secondo il rapporto 2024 di Reporters sans frontières, l’Italia scivola al 46º posto mondiale per libertà di stampa. Una situazione definita “problematica”, con un netto peggioramento rispetto al passato. In calo la pluralità, in aumento la pressione politica, le querele temerarie, la censura strisciante. Le leggi approvate negli ultimi mesi — dal cosiddetto “ddl bavaglio” al pacchetto sicurezza che mette in discussione la tutela delle fonti — hanno segnato una deriva visibile.
Sigfrido Ranucci, presente all’incontro, ha parlato di “desertificazione dell’informazione pubblica”. In Rai da 35 anni, dice di non aver mai vissuto un clima così difficile. “Sono arrivato a 196 querele, ma non è vero che paga la Rai. L’azienda anticipa la tutela legale, ma si rivale sui giornalisti. Siamo obbligati a vincere sempre”. È un sistema pensato per isolare chi fa inchieste e per premiare il silenzio.
Le parole non bastano più
Tutti, più o meno esplicitamente, hanno riconosciuto di aver accumulato ritardi. “Si poteva fare prima, ma questo non deve essere un alibi per non farla ora”, ha ammesso Schlein. L’obiettivo è approvare una nuova governance Rai che garantisca indipendenza e pluralismo, fuori dalla lottizzazione parlamentare e dal controllo del governo.
Non sarà semplice, ma non è neppure più rinviabile. Perché senza un’informazione libera non esiste controllo del potere. E senza controllo, la democrazia è solo un rituale. L’8 agosto non è solo una scadenza burocratica. È il bivio tra lo stato di diritto e lo stato d’eccezione.