La pena di morte non passa di moda, nel 2024 giustiziate oltre 1.500 persone

Nel 2024 le esecuzioni capitali nel mondo hanno toccato il massimo dal 2015: 1518 persone uccise, il 64% solo in Iran

La pena di morte non passa di moda, nel 2024 giustiziate oltre 1.500 persone

Nel 2024 almeno 1518 persone sono state uccise per mano degli Stati, con la benedizione di leggi che continuano a mascherare la vendetta con il nome di giustizia. È il numero più alto dal 2015, e non tiene conto delle esecuzioni segrete in Cina, Corea del Nord e Vietnam. È questo il nuovo record documentato da Amnesty International: un traguardo che si misura in patiboli, silenzi e impunità.

Più di nove condanne su dieci sono state eseguite da tre paesi: Iran, Iraq e Arabia Saudita. Tre Stati che condividono l’uso sistemico della pena capitale per consolidare il potere, reprimere il dissenso, cancellare le minoranze, punire la povertà. In Iran, nel solo 2024, le persone messe a morte sono state almeno 972. In due casi, riferisce Amnesty, le vittime erano legate alle proteste del movimento “Donna, Vita, Libertà”. Una di loro aveva una disabilità mentale.

In Arabia Saudita il numero di esecuzioni è raddoppiato rispetto all’anno precedente. Tra i condannati figura Abdulmajeed al-Nimr, giustiziato ad agosto per presunti legami con il terrorismo, dopo essere stato inizialmente accusato di aver partecipato a manifestazioni tra il 2011 e il 2013. In Iraq le esecuzioni sono quadruplicate. Non è giustizia, è un’esibizione di forza.

Dissenso e repressione, sotto la forca

Amnesty documenta come la pena di morte venga sempre più usata come strumento politico. Per zittire voci scomode, per punire le rivendicazioni, per rafforzare il controllo sociale. In alcuni Stati del Medio Oriente viene utilizzata per colpire oppositori, difensori dei diritti umani, minoranze etniche e religiose. Si muore anche per accuse legate alla droga: oltre il 40 per cento delle esecuzioni del 2024 ha riguardato questi reati, una violazione palese del diritto internazionale che riserva la pena capitale ai “reati più gravi”.

In Cina, Iran, Arabia Saudita e Singapore le condanne per droga sono applicate con metodo. Senza prove che queste uccisioni riducano davvero il traffico di stupefacenti. Le vittime? Persone senza difese, spesso marginalizzate, private della possibilità di un processo equo.

Negli Stati Uniti, dove le esecuzioni sono in crescita, sono stati messi a morte 25 condannati. Il presidente Donald Trump ha più volte invocato la pena capitale contro “assassini e mostri”, alimentando l’idea che uccidere per legge sia l’unico modo per garantire sicurezza. È il solito trucco: chiamare ordine ciò che è vendetta.

La resistenza del diritto

Eppure non tutto va in direzione opposta. Nel 2024 solo 15 paesi hanno eseguito condanne a morte: il numero più basso mai registrato, per il secondo anno consecutivo. Nel mondo, 113 Stati hanno abolito la pena capitale per tutti i reati e 145 non la praticano più.

In Malesia le riforme hanno portato alla riduzione di oltre mille condanne. Lo Zimbabwe l’ha abolita per i reati comuni. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato per la decima volta a favore di una moratoria.

E poi ci sono i nomi. Hakamada Iwao, assolto in Giappone dopo 47 anni nel braccio della morte. Rocky Myers, nero, condannato in Alabama, ha visto la sua pena commutata grazie a una mobilitazione collettiva.

“Quando le persone si mobilitano per porre fine alla pena di morte, i risultati si vedono davvero”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty. Ma se è vero che la storia della pena capitale è una storia che finisce, è altrettanto vero che chi la mantiene oggi lo fa con più cinismo, più segretezza e più disumanità.

Finché ci saranno esecuzioni, ci sarà bisogno di contarle. Perché dietro ogni cifra c’è un corpo appeso, e un’istituzione che ha deciso di chiamarlo giustizia.