Il racconto delle persone straniere nelle carceri italiane è un esempio di come il dibattito pubblico deformi i numeri: dati decontestualizzati, equazioni semplicistiche che suonano più come propaganda che analisi. Un’analisi di Facta lo dimostra: dietro le percentuali si nascondono fattori sociali, economici e giuridici che alterano la percezione.
Al 31 gennaio 2025, secondo il ministero della Giustizia, le persone straniere detenute erano 19.622, il 31,6% del totale. Un dato spesso usato per collegare immigrazione e criminalità. Eppure, come riporta Facta, il tasso di detenzione degli stranieri è in calo da quindici anni: nel 2009 era dello 0,61%, oggi è sceso allo 0,35%, nonostante l’aumento della popolazione straniera residente. Il legame tra immigrazione e crimine, dunque, non regge.
Gli stranieri hanno meno accesso alle misure alternative alla detenzione e sono più spesso incarcerati per reati di lieve entità. Il 91% delle condanne per violazioni della normativa sull’immigrazione riguarda loro: significa che molti sono in carcere per reati che un italiano non può commettere.
Il sistema premia chi ha una rete sociale e affonda chi non ha tutele. Chi è senza alloggio difficilmente otterrà i domiciliari. Chi non ha una comunità rischia di rimanere in carcere in attesa di giudizio. Se è giovane e senza famiglia, finirà dietro le sbarre invece che in percorsi di reinserimento.
La distorsione dei numeri serve a rafforzare pregiudizi. Ma i dati raccontano altro: il legame tra immigrazione e criminalità è un costrutto politico, non una realtà. L’ossessione securitaria non colpisce chi delinque, ma chi è più vulnerabile. Ed è questo che dovrebbe farci paura.