L’Italia rischia di più. Lo dice l’Istat, lo confermano i numeri: il 48% del nostro export vola fuori dall’Unione europea e gli Stati Uniti sono il secondo mercato di sbocco. Se Trump dovesse impugnare l’arma dei dazi, l’Italia sarebbe il bersaglio perfetto: piccola abbastanza per non fare paura, vulnerabile abbastanza per essere usata come avvertimento. Un colpo diretto alle nostre imprese che già faticano tra stagnazione economica e un’Europa che gioca sulla difensiva. E il governo Meloni? Per ora, equilibrismo. Il tentativo di non scontentare nessuno, di non esporsi, di fare la voce grossa in conferenza stampa e poi calare la testa nelle stanze che contano. Trump è una variabile impazzita, certo, ma una cosa è chiara: chi negozia da una posizione di debolezza è già sconfitto. E l’Italia, in questo scenario, è un vaso di coccio tra giganti.
Qui servirebbe un sovranismo vero, non la versione da talk show. Difendere l’interesse nazionale significa fare scelte nette, non farsi dettare la linea. La Francia lo sa, e gioca su più tavoli. La Germania lo sa, e tratta da potenza economica. L’Italia, invece, è bloccata in una terra di nessuno, con un governo che si pavoneggia di patriottismo ma si rassegna all’irrilevanza internazionale.
I dazi americani possono costarci miliardi, posti di lavoro, pezzi interi del nostro sistema produttivo. Il settore manifatturiero e quello agroalimentare sono in prima linea: un aumento dei dazi metterebbe in ginocchio l’export di eccellenze italiane come il vino, la moda, la meccanica di precisione. E mentre la Francia tutela le sue industrie con diplomazia aggressiva, l’Italia resta a guardare, nella speranza che il problema si risolva da solo.
Meloni dovrebbe essere la donna forte che ama raccontare, ma nel luogo giusto: non davanti ai giornalisti italiani, ma nei palazzi di Bruxelles e Washington, battendo i pugni per difendere l’Italia. Perché la verità è semplice: se non sei tu a proteggere il tuo Paese, nessuno lo farà al posto tuo.