La Sveglia

Venticinque miliardi all’anno

Venticinque miliardi all’anno. Ogni anno. Per sempre. Per le armi. È il prezzo della promessa di Giorgia Meloni alla Nato: portare la spesa militare italiana al 2,5% del Pil. Un incremento che non è una tantum, ma una tassa occulta sulla collettività, pagata con il taglio al welfare, ai servizi, ai diritti.

Venticinque miliardi equivalgono a una volta e mezza il budget per la disoccupazione. Sono due terzi di quanto lo Stato destina alle persone con disabilità. Superano di poco l’intera spesa per l’inclusione sociale. Ma guai a dire che questi soldi potrebbero essere usati meglio: chi contesta è un pacifista da salotto, un ingenuo che non capisce le “esigenze strategiche”.

Ma quali esigenze? L’Italia non ha un piano chiaro su come impiegare questa montagna di denaro. Più armi? Più soldati? Il generale Carmine Masiello chiede un esercito da 138mila unità, 45mila in più rispetto agli attuali piani. Il governo risponde con stanziamenti ciechi, scollegati da qualsiasi reale necessità di difesa, utili solo a ingrassare l’industria bellica.

Standard & Poor’s avverte: l’impatto sul deficit sarà devastante. Il moltiplicatore economico è ridicolo: per ogni euro speso in armi, lo Stato ne recupererà solo 40-50 centesimi. Ma poco importa. Il riarmo è la nuova liturgia, il totem che nessuno osa contestare. E mentre le casse pubbliche si svuotano per finanziare un esercito sempre più grande, resta la domanda scomoda: se si riempiono gli arsenali, prima o poi non verrà voglia di usarli?