Un accordo da 200 miliardi di dollari l’anno per proteggere la biodiversità. È questo il risultato che la COP16 di Roma porta a casa dopo giorni di trattative febbrili e il rischio concreto di un altro fallimento dopo quello di Cali. I negoziatori hanno chiuso con un piano finanziario per sostenere il Global Biodiversity Framework, l’obiettivo di proteggere il 30% delle terre e dei mari entro il 2030 e la creazione del Fondo Cali per coinvolgere le industrie che traggono profitto dalle risorse naturali. Un successo, sulla carta. Ma le critiche sono immediate, e non si limitano a sottolineare il solito vizio delle dichiarazioni roboanti prive di impegni concreti.
Cop16, un finanziamento incerto e ritardi strutturali
Il WWF lo dice chiaramente: il piano finanziario è insufficiente. I paesi sviluppati, che avrebbero dovuto garantire 20 miliardi all’anno ai paesi in via di sviluppo entro il 2025, sono già in ritardo sugli impegni. La cifra finale dovrebbe salire a 30 miliardi entro il 2030, ma nulla assicura che questi fondi verranno effettivamente stanziati. Senza finanziamenti reali, avverte il WWF, gli obiettivi restano un elenco di buone intenzioni senza gambe per camminare. Il nodo principale è sempre lo stesso: senza garanzie certe e meccanismi di controllo, le promesse di finanziamento restano lettera morta. È una dinamica già vista nelle precedenti conferenze, dove le risorse promesse si sono spesso rivelate insufficienti o, peggio, mai erogate.
Un altro punto critico riguarda il Fondo Cali, ideato per obbligare le aziende che sfruttano risorse genetiche naturali a condividere i benefici economici con le comunità locali. Un principio sacrosanto, ma che al momento rimane un’idea senza copertura finanziaria. Gli attivisti temono che finirà per essere un’arma spuntata, utile solo per abbellire i comunicati finali della conferenza. Il fondo dovrebbe servire a finanziare progetti di conservazione direttamente nelle aree più colpite dalla perdita di biodiversità, ma il rischio concreto è che venga gestito in modo inefficace o, peggio, che si trasformi in un meccanismo burocratico senza impatti reali sul territorio.
Il dibattito sulla governance dei fondi è un altro nodo irrisolto. I paesi in via di sviluppo chiedono un nuovo fondo sotto l’autorità della Convenzione sulla Biodiversità (CBD), mentre l’Unione europea e il Giappone preferirebbero potenziare strumenti esistenti come il Global Environment Facility. Il braccio di ferro è stato rimandato alla COP18 del 2028, lasciando aperta una questione chiave: chi controllerà realmente le risorse per la biodiversità? Se la gestione dei fondi verrà affidata agli stessi organismi che hanno fallito nel garantire i precedenti impegni, la comunità scientifica teme che i risultati possano essere altrettanto deludenti. Senza un vero strumento di governance trasparente, il rischio è che il denaro non arrivi mai dove servirebbe di più.
Il rischio di un altro fallimento annunciato
Nel frattempo, il ritardo accumulato pesa. La COP16 arriva dopo un’edizione fallimentare a Cali, con discussioni arenate sulla questione finanziaria. A Roma si è tentato di recuperare il terreno perduto, ma la sensazione diffusa è che ci si sia limitati a posticipare i problemi senza risolverli. “Solo lavorando insieme possiamo fare pace con la natura”, ha detto la presidente della COP16, Susana Muhamad, in chiusura dei lavori. Frase perfetta per il comunicato ufficiale, meno per chi si aspettava decisioni operative. A questo si aggiunge il problema della credibilità: quante delle misure annunciate troveranno realmente applicazione? Senza vincoli precisi e strumenti sanzionatori per chi non rispetta gli impegni, il rischio di un ennesimo fallimento è concreto.
Il compromesso siglato a Roma è solo il primo passo in un percorso che richiede azioni concrete. Senza un chiaro meccanismo di monitoraggio e una definizione vincolante degli obblighi finanziari, l’obiettivo di proteggere il 30% della natura mondiale rischia di restare sulla carta. L’assenza di sanzioni per chi non rispetta gli impegni è un altro elemento critico: senza strumenti di pressione, i paesi meno inclini a contribuire potrebbero ridurre le loro quote senza conseguenze. Il problema è evidente: chi controllerà che le risorse vengano effettivamente impiegate? E soprattutto, quali saranno le conseguenze per i paesi che non rispetteranno gli impegni presi?
La pressione della società civile, delle ONG e delle comunità locali sarà fondamentale per trasformare gli accordi in risultati tangibili. La COP17, prevista in Armenia nel 2026, dovrà dimostrare che la COP16 non è stata solo un esercizio diplomatico. Se i finanziamenti reali non arriveranno e la governance rimarrà un nodo irrisolto, questa conferenza verrà ricordata come un’occasione mancata. Ma se le promesse fatte a Roma si tradurranno in azioni concrete, allora sarà stato un passo nella giusta direzione. Serve però una svolta immediata: se si continuerà a rimandare le decisioni chiave, il 2030 arriverà senza che nulla sia stato realmente fatto. E allora, a quel punto, non basteranno più le dichiarazioni d’intenti. Sarà troppo tardi.