Migranti, tra realtà e narrazione: come i media parlano (o non parlano) delle persone migranti di minore età nel Rapporto Unicef-Carta di Roma

La narrazione mediatica sulle persone migranti di minore età oscilla tra emergenza e criminalizzazione, lasciandole senza voce.

Migranti, tra realtà e narrazione: come i media parlano (o non parlano) delle persone migranti di minore età nel Rapporto Unicef-Carta di Roma

Un tempo si diceva che l’informazione fosse il quarto potere, oggi è sempre più spesso il primo strumento di manipolazione. Se ne accorgono soprattutto le persone che finiscono inghiottite nelle narrazioni dominanti, distorte e semplificate fino alla disumanizzazione. Il rapporto UnicefCarta di Roma, “Tra realtà e rappresentazione” fotografa con precisione questa macchina comunicativa applicata alle persone migranti di minore età. Il risultato è uno schema narrativo che riduce l’individualità a numeri, le voci a sussurri ignorati e le storie a meri strumenti di propaganda.

La distorsione dell’emergenza

La copertura mediatica sulle persone migranti, specie quelle di minore età, segue sempre lo stesso copione: emergenza, sicurezza, minaccia. È un racconto che trova nei picchi di attenzione un pretesto per soffiare sul fuoco delle paure collettive. Il naufragio di Cutro, gli sbarchi record di settembre 2023, le violenze di gruppo a Catania: eventi che diventano il perno di una narrazione che ignora il contesto, semplifica i motivi delle migrazioni e, soprattutto, evita accuratamente di ascoltare i protagonisti.

Il rapporto mostra che solo nel 14% dei casi si dà voce diretta alle persone di minore età coinvolte. Il resto del discorso è monopolizzato da politici, opinionisti e giornalisti, in un dibattito che sembra fatto apposta per escludere chi ne è oggetto. La regola è chiara: parlare di loro, senza mai parlare con loro.

La criminalizzazione sistematica

Quando i minori stranieri riescono a emergere nelle cronache, spesso è perché sono stati trasformati in capro espiatorio per problemi più ampi. Il rapporto evidenzia che il 54% delle notizie sui giovani migranti è legato alla cronaca nera. Baby gang, stupri, violenze: episodi isolati che vengono trasformati in emergenze nazionali. Un’intera generazione di adolescenti viene descritta come pericolosa, deviante, un peso per la collettività. Nessuno spazio per raccontare percorsi di studio, successi personali o storie di inclusione.

Il linguaggio utilizzato dai media è un ulteriore strumento di discriminazione. Il rapporto documenta l’abuso di termini come “clandestini”, “irregolari”, “stranieri” in contesti che dovrebbero parlare di minori e dei loro diritti. Il messaggio è chiaro: non sono bambini, sono altro. Qualcosa di pericoloso, da controllare, da tenere lontano.

La scomparsa dalle notizie

Ma c’è un’altra forma di violenza, forse ancora più sottile e insidiosa: il silenzio. Il rapporto Unicef – Carta di Roma mostra che nel 90% delle notizie sulle migrazioni i minori non vengono nemmeno menzionati. Quando si parla di flussi migratori, si pensa sempre agli adulti. I minori sono fantasmi che esistono solo quando servono alla narrazione securitaria.

Questa omissione è una scelta politica e giornalistica. Non vedere significa non dover rispondere. Non raccontare significa non dover proteggere. Il sistema dell’informazione si adegua perfettamente a una politica che non vuole prendersi responsabilità, che taglia fondi all’accoglienza, che elimina ogni spazio di tutela per chi arriva nel nostro Paese senza adulti di riferimento.

Il potere di un racconto diverso

Il rapporto si chiude con raccomandazioni precise per chi fa informazione: dare spazio alle voci delle persone migranti di minore età, evitare il linguaggio emergenziale, contestualizzare i dati, uscire dalla logica della paura.

Sono indicazioni basilari, che non dovrebbero nemmeno servire in un giornalismo che si definisce etico. Ma il problema è proprio questo: oggi l’etica è un lusso, la correttezza un optional. Le narrazioni tossiche funzionano perché alimentano consensi, vendono copie, creano dibattiti infuocati che riempiono i palinsesti televisivi. La verità è scomoda, non è spettacolare, non fa audience.

Servirebbe il tempo di ascoltare chi è coinvolto, che riconosce la complessità delle storie di migrazione, che capisce che dietro ogni numero c’è un volto, un nome, una vita. Ma per questo serve un giornalismo che abbia ancora il coraggio di fare il proprio mestiere: raccontare la realtà, non costruire l’invisibilità.