In Italia si legge poco. Pochissimo. Il 65 per cento della popolazione sopra i 16 anni non ha aperto un libro nell’ultimo anno, secondo i dati Eurostat analizzati da Lorenzo Ruffino. La media europea? Il 47 per cento. Significa che mentre altrove il libro rimane un’abitudine, da noi è un’eccezione. Peggio di noi, in Europa, solo Romania, Turchia, Cipro e Serbia.
Leggere poco non è un peccato veniale. È una condanna. A cosa? Alla mediocrità politica, al dibattito pubblico ridotto a risse televisive in cui il tono della voce sostituisce la sostanza, alla classe dirigente che non sa articolare un pensiero complesso ma sa imitare il verso del cane davanti alle telecamere. A una parlamentare che va in televisione facendo il verso del cane.
Non stupisce, allora, che il titolo di studio sia il principale discrimine: il 66 per cento delle persone laureate in Italia legge almeno un libro all’anno, contro il 40 per cento dei diplomati e il 19 per cento di chi ha solo la terza media. Numeri drammatici, se confrontati con la media europea: 77 per cento per i laureati, 50 per cento per i diplomati e 32 per cento per chi ha la licenza media.
Chi legge, pensa. Chi pensa, riconosce la propaganda, smaschera le bugie, esercita il dubbio. Non è un caso che in un Paese che legge poco si tenda a credere a tutto. O a chi urla di più.
In Svizzera il 19 per cento della popolazione non legge libri. In Francia il 28 per cento. In Spagna il 46 per cento. In Italia il 65 per cento. Qui non è una questione di svago o di preferenze: è un dato politico. È un problema di libertà. E la libertà ha a che fare anche con la conoscenza.