Oggi, 6 febbraio, si celebra la Giornata internazionale della tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili (MGF). Una pratica brutale che colpisce ancora 230 milioni di donne e bambine in oltre 90 Paesi, nonostante le dichiarazioni di condanna e le leggi proibitive. Non è un retaggio di un passato lontano, ma una realtà attuale, diffusa in molte regioni del mondo, dall’Africa all’Asia, fino a toccare l’Europa e l’Italia, dove oltre 87.000 donne convivono con le conseguenze di questa violenza, di cui 7.600 sono minorenni.
Le mutilazioni genitali femminili sono spesso presentate come un rito di passaggio all’età adulta, una prova di appartenenza alla comunità. In molte culture, la “circoncisione femminile” è considerata un requisito per il matrimonio, una garanzia di verginità e onore familiare. Dietro queste giustificazioni si nasconde, invece, il controllo patriarcale sui corpi delle donne, un meccanismo di oppressione che priva le vittime della loro integrità fisica e psicologica.
La violenza dietro la tradizione
La testimonianza di Fatoumata Diallo, riportata dal blog ‘Le persone e la dignità’ del Corriere della Sera, attivista senegalese e sopravvissuta alle MGF, risuona ancora con forza: “Eravamo un gruppo di ragazze, ci hanno portato in un bosco per ‘tagliarci’. Una delle ragazze è morta, hanno agito in modo selvaggio e non riuscivano a fermare l’emorragia”. L’infibulazione, la forma più estrema, prevede l’asportazione del clitoride e la cucitura dei genitali esterni, lasciando solo una piccola apertura per l’urina e il sangue mestruale. Le complicanze mediche sono devastanti: infezioni, emorragie, dolori cronici, difficoltà nei rapporti sessuali e nel parto, con un alto rischio di mortalità materna e neonatale.
Non si tratta solo di un problema sanitario, ma di una questione di diritti umani. L’Onu ha stabilito l’obiettivo di eliminare questa pratica entro il 2030, ma la strada è ancora lunga. In Europa, si stima che oltre 600.000 donne siano portatrici di MGF e 190.000 siano a rischio. La disinformazione, l’assenza di interventi strutturati e lo stigma sociale rendono difficile il contrasto efficace del fenomeno.
L’Italia e la lotta ancora insufficiente
In Italia la legge 7/2006 vieta le mutilazioni genitali femminili e prevede misure di prevenzione e assistenza. Tuttavia, mancano dati aggiornati sull’efficacia degli interventi. L’ultimo monitoraggio ufficiale risale al 2019, mentre l’esito del bando per una nuova mappatura del fenomeno, indetto nel 2023 dal Dipartimento Pari Opportunità, non è ancora stato reso noto.
ActionAid chiede un’applicazione più incisiva della legge, un’integrazione delle MGF nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e una presenza costante di mediatrici culturali nei servizi sanitari e sociali. Un altro problema è la difficoltà di accesso ai servizi sanitari per le donne che hanno subito mutilazioni: molte evitano di rivolgersi ai consultori per paura di essere giudicate, altre non sanno che esistono cure per alleviare le conseguenze della pratica.
Il dialogo come strumento di cambiamento
Per spezzare il ciclo della violenza, serve un lavoro di sensibilizzazione profondo. Le community trainer, figure chiave nel contrasto alle MGF, lavorano nelle comunità a rischio per far emergere una consapevolezza diversa. “Non bisogna dire ‘siete cattive madri’, bisogna far comprendere che la violenza non è tradizione” spiega Edna Moallin Abdirahman, attivista e mediatore culturale. La lotta contro le MGF non si vince con la stigmatizzazione, ma con l’educazione e l’empowerment delle donne, perché quando una generazione decide di interrompere questa pratica, le generazioni future ne saranno libere.
Le storie di chi è riuscito a dire “basta” dimostrano che cambiare è possibile. Ma servono azioni concrete, strumenti efficaci e soprattutto volontà politica. Perché le mutilazioni genitali femminili non sono un problema di culture lontane, ma una ferita che attraversa il mondo intero.